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SPACCO TUTTO
08 Settembre 2017
Il testo è la rielaborazione dell’intervento di Luciano Marchino al Convegno “Violenza e Educazione” (24-25 novembre 2011, Università di Milano-Bicocca).
Per accostarmi in termini chiari e comprensibili al tema, mi sarà necessario un breve preambolo, che faciliti in chi legge la comprensione di un punto di vista che potrebbe altrimenti risultare pretestuoso e del tutto immotivato. A mio avviso, infatti, la violenza è parte, e non piccola, del processo di adattamento degli esseri umani alla civiltà occidentale contemporanea.
L’Occidente industrializzato ad alto sviluppo tecnologico è cresciuto sulla base di una grande illusione: l’illusione che l’accesso a una maggior quantità di beni coincida tout court con un miglioramento della condizione umana. Basterebbe, per smentire tale illusione, constatare il continuo incremento nell’uso di farmaci ansiolitici e antidepressivi e la diffusione capillare di sostanze tossiche adatte a trasformare lo stato di coscienza: dalla cocaina ai telefoni cellulari.
Disgraziatamente noi esseri umani contemporanei siamo tuttora governati dallo stesso DNA dei nostri antenati del Paleolitico, un’epoca in cui, evidentemente, l’accesso ai beni era in verità assai modesto, e rilevante solo nella misura in cui garantiva la sopravvivenza. L’accesso al piacere non era posto in relazione con ulteriori disponibilità di beni, ma con la qualità delle relazioni tra i membri della tribù e, naturalmente, con l’ambiente circostante.
Se l’accesso di massa ai beni è, ai giorni nostri, infinitamente migliorato (abbiamo abiti comodi e confortevoli, disponibilità di cibo e accesso alla conoscenza come non era neppure immaginabile solo cent’anni fa), non altrettanto si può dire della qualità delle relazioni umane. La necessità di condizionare masse umane sempre crescenti all’ambiente urbano ha dettato la necessità di introdurre regole sempre più precise e restrittive all’esercizio del libero arbitrio. Tali regole peraltro vengono incorporate da noi esseri umani secondo matrici somatorelazionali arcaiche perché il processo di incorporamento della cultura è ancora normato, nel profondo di ciascuno, dallo stesso DNA dei nostri precursori più lontani. Il processo evolutivo della specie non ha potuto compiere negli ultimi decenni lo stesso salto evolutivo che abbiamo vissuto dal punto di vista tecnologico!
Ritengo che la violenza nevrotica (che da trent’anni a questa parte osservo quotidianamente nell’ambito del mio lavoro) sia conseguenza diretta dell’urbanizzazione e sia la principale responsabile del disagio della civiltà contemporanea[1].
Il processo di urbanizzazione di massa che stiamo attraversando, con megalopoli che hanno raggiunto i tredici milioni di abitanti, va visto tanto nella prospettiva dell’evoluzione filogenetica quanto in quella dell’evoluzione ontogenetica di ciascuno. Ed è a questo punto che la violenza entra irrimediabilmente a far parte del processo educativo. La violenza, a mio avviso, è infatti conseguenza diretta della necessità di condizionare i nostri figli, che nascono col patrimonio genetico dei cuccioli d’uomo del Paleolitico, a un ambiente altamente sofisticato e a sua volta condizionato dal modo di produzione attuale, tanto dei beni quanto delle relazioni interpersonali.
Il processo evolutivo del bambino è quindi determinato dalla necessità di renderlo prima di tutto adatto ad abitare in un appartamento urbano, con tutte le regole implicite che a noi contemporanei sembrano semplicemente ovvie. Gli è impedito per esempio di esprimersi liberamente con la voce (“Non urlare così, pensa ai vicini!”), e non può neppure sfogarsi correndo, saltando, lottando con altri bambini o inseguendo piccole prede, sia perché in casa manca materialmente lo spazio per farlo, sia perché viene prematuramente condizionato a piegarsi a un senso morale che non può ancora comprendere ma a cui deve comunque sottostare (“Non si fa così, vergogna!”).
In una grande quantità di casi, il bambino viene poi separato dalla madre prematuramente e in modo innaturale, perché lei deve riprendere il suo posto all’interno del processo produttivo. Una separazione che qualsiasi cucciolo d’uomo subisce solo dopo aver speso, attraverso l’urlo e il pianto, tutte le energie a sua disposizione per richiamarla a sé, arrendendosi solo per spossatezza e interiorizzando forzatamente la consapevolezza della propria impotenza a ottenere il contatto, il calore, il contenimento e la sicurezza di cui ha bisogno per vivere.
Anche quando è con la madre, o con un suo sostituto efficace, la vita in ambiente urbano viene comunque spesso prospettata al bambino come piena di insidie da cui potrà trovare riparo solo ubbidendo a chi lo accompagna: l’uomo nero, gli zingari o altri spauracchi sono lì al servizio di ogni brava mamma. In tal modo prenderà corpo in lui un “sano” terrore di allontanarsi dai luoghi conosciuti per esplorare l’ambiente e il mondo intorno a sé. Divenuto adulto sarà quindi esposto ad attacchi d’ansia o di panico ogniqualvolta si allontanerà dai luoghi o dalle persone a cui, in modo spesso inconscio, ha demandato la sua sicurezza.
Questi comportamenti e questo processo educativo possono sembrare ovvi, ma chi abbia avuto modo di osservarne gli effetti a lungo termine non può evitare di constatare come, congiunti ad altri elementi relazionali sui quali non è possibile dilungarsi in questa sede, contribuiscano al processo di adattamento sociale e, al tempo stesso, al processo di disadattamento personale. In altre parole, il cittadino ben adattato è al contempo un essere umano gravemente disadattato.
Non si tratta evidentemente di rinunciare al progresso tecnologico per tornare indietro e poter vivere felicemente fino ai 35 anni (età media stimata per i nostri predecessori del Paleolitico, non dimentichiamo gli enormi progressi in campo medico), nell’incessante ricerca di qualcosa con cui sfamarsi e continuamente in fuga da predatori più grossi di noi.
Credo però che sia possibile ripensare la società. Anzi, appare sempre più urgente immaginare una società futura creata a partire dai bisogni dell’Uomo, in sostituzione progressiva di quella attuale in cui l’Uomo è costretto ad adattarsi a un sistema sociale e produttivo che ne considera i bisogni emozionali e relazionali fondamentali solo per farne mercato. Al di là di altre non piccole differenze, questo fu il fondamentale dissidio tra Sigmund Freud, che sosteneva il primato del sociale sul personale a partire dalla convinzione della fondamentale negatività dell’uomo, e il suo brillante allievo Wilhelm Reich che, pur prendendo atto dello stato delle cose, si adoperò sino all’ultimo dei suoi giorni per promuovere una visione della società futura a partire dalla conoscenza e dal rispetto dei bisogni umani. L’incipit di tutti i suoi libri recita infatti: “L’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita. Dovrebbero anche governarla”.
Definire la violenza
Mi sembra importante, prima di procedere, fornire una definizione di violenza. Non volendo allontanarmi troppo dal senso comune, ricorro alle più semplici definizioni fornite dal dizionario Zingarelli della lingua italiana. Qui interviene un’interessante variabile: essendo padre di una giovane studentessa, consulto prima la mia edizione (1960) e poi la sua (2011). Le differenze non appaiono a prima vista clamorose, ma sono tuttavia sottilmente significative. In entrambe le versioni il dizionario definisce la violenza come “la coazione fisica o morale esercitata da un soggetto su un altro così da indurlo a compiere atti che altrimenti non avrebbe compiuto”. Ne consegue l’ovvio esempio della violenza sessuale, così chiara, esplicita e giustamente penalizzata. In entrambe le versioni, il dizionario dichiara che un’azione si può dire violenta quando siamo in presenza di una “forza soverchiante in atto”, caratterizzata da “grande intensità”;
Tuttavia, nella versione del 2011 (ma non in quella del 1960) troviamo anche un inquietante indizio di come la violenza si possa intromettere nella relazione tra genitori e figli sotto mentite spoglie: “dolce, amorevole, insistenza che costringe ad accettare o fare qualcosa” (il corsivo è mio).
Se aveste qualche dubbio rispetto all’appropriatezza dell’utilizzo del termine violenza in quest’ultima accezione, provate a immaginare, in questo preciso istante, che un gigante alto sei o otto metri e grosso in proporzione entri nella stanza e, magari col sorriso sulle labbra e col tono di voce più amorevole, interrompa quello che state facendo e insista per indurvi a fare, contro la vostra volontà, qualcosa che è a suo avviso più necessario, più urgente o semplicemente più giusto.
È a questo punto che i termini del problema diventano chiari: facendo violenza prima di tutto a sé stesso, il genitore del terzo millennio, si trova costretto a violentare il proprio cucciolo per addomesticarlo, cioè per renderlo adatto a vivere nella domus. E poiché ai tempi nostri violenza è sinonimo di brutalità ma anche di aggressività (Zingarelli 2011), tenderà a inibire la naturale aggressività del bambino prevenendolo in tal modo dall’integrarla nel suo patrimonio relazionale adulto.
L’aggressività naturale, non integrata e non contenuta dall’altrettanto naturale e simmetrico sviluppo di una naturale empatia, comune tra i nostri predecessori (“Ti amo e ti rispetto perché tu sei me”[2]), si dissocerà dal senso del sé, per riemergere in modo incontrollato e incontrollabile in condizioni di particolare stress ambientale o relazionale.
Nei testi freudiani troviamo la drammatica descrizione del ritorno del rimosso, in Jung la nozione di ombra, in Reich e Lowen la nozione di armatura carattero-muscolare più adatta, nella concretezza dei suoi elementi, a dar conto di una matrice relazionale psiconeuromuscolare che non si può ridurre a colta metafora, ma che è necessario riconoscere nei suoi elementi strutturali per avere la concreta possibilità di elaborarla non “in teoria” ma nei fatti. In assenza di integrazione e di elaborazione, l’aggressività naturale, a lungo reclusa nei meandri dell’inconscio personale corporeo, tornerà a manifestarsi soprattutto come violenza distruttiva. Una violenza che trasformerà ogni gesto ri-vendicativo in una nuova opportunità di prevaricazione e in una forma di distruttività che non abbisogna di alcuna spiegazione: essa infatti si automotiva come espressione di tensioni psiconeuromuscolari inconsce che, proprio perché tali, bypassano ogni possibilità di integrazione razionale, accontentandosi, al più, di razionalizzazioni autogiustificatorie a posteriori.
L’incorporazione della violenza nevrotica e la sua elaborazione
Quanto esporrò di seguito emerge da una lunga tradizione post-freudiana a lungo mortificata, screditata e violentemente repressa dai detentori di un potere (anche accademico) più interessato a preservare se stesso, il suo predominio politico e sociale e i suoi dogmi fondamentali, che a indagare il fatto della realtà. Tale tradizione è, al tempo presente, continuamente confermata e sostenuta tanto dai progressi delle neuroscienze somatorelazionali quanto da quelli della biofisica quantistica (Del Giudice, Brizhik, Montagnier) e, col suo potenziale, a lungo gelosamente protetto e arricchito, si appresta a contribuire al formarsi di una cultura umanocentrica del futuro.
Il fondatore di tale tradizione, Wilhelm Reich, fu il primo a ipotizzare e dimostrare l’esistenza di una struttura, l’armatura carattero-muscolare, che prende corpo in ciascun essere umano nel corso delle fasi più precoci del processo relazionale, cioè quando il bambino apprende come incorporare le regole fondamentali del nucleo sociale che lo contiene, lo limita e lo protegge, diventando in tal modo un membro, un soggetto e un rappresentante di tale nucleo (tribù, famiglia, gruppo sociale).
La psicologia accademica si è a lungo ostinata a preservare l’arbitraria ipotesi di una psiche disincarnata e operante in modo indipendente dal corpo come se, per operare nel mondo, anche una psiche aliena non necessitasse comunque di un corpo attraverso cui agire. Non stupirà nessuno, a questo punto, la mia opinione che la violenza, anche la cosiddetta violenza psicologica, necessiti di un corpo attraverso cui essere agita e che la violenza sia quindi essenzialmente un f/atto corporeo.
Essendo un f/atto corporeo, la violenza è dotata al contempo di una dimensione ideativa, di una dimensione neuronale e di una dimensione muscolare, tra loro inseparabili se non per “comodità descrittiva”, una comodità che abbiamo pagato al caro prezzo di non comprendere l’essenza della violenza e di averne reso possibile l’indiscriminata proliferazione all’interno della nostra cultura. Il processo di incorporazione della violenza avviene infatti, alla luce di quanto abbiamo sommariamente ricapitolato, attraverso l’inibizione prematura della naturale pulsione umana all’autoaffermazione: al semplice e arcaico “Io sono”.
Distorta, traviata e socialmente veicolata nei modi previsti e imposti dallo sviluppo economico e sociale moderno, l’aggressività propositiva, creativa ed evolutiva è riemersa nei modi e nelle forme di un’aggressività distruttiva, prevaricante e priva di ogni residua empatia. Infatti se “servendosi” del corpo per esprimersi nel mondo, l’aggressività organizza specifici circuiti psiconeuromuscolari, la sua inibizione, prematura e/o inappropriata, dovrà organizzarsi a ritroso lungo i medesimi percorsi. L’inibizione imprimerà e stabilizzerà nel corpo le tracce e i modi di una conflittualità resa perenne e inconscia dall’esigenza di rimuovere dalla consapevolezza, ma conservare nel corpo, il dove, il come, il quando e il motivo per cui l’autoassertività naturale fu proibita e sostituita dai modi di un addestramento/adattamento al sociale che da essa pretendeva di prescindere.
L’errore dei processi educativi post-industriali è tutto nell’illusione di potersi realizzare a prescindere dalla natura umana, pretendendo che questa si possa tranquillamente conformare a questo o a quest’altro paradigma ideologico o religioso.
All’interno di un processo di ri-evoluzione somatorelazionele (psicoterapia), l’elaborazione della violenza, introiettata e stabilmente incorporata, dovrà quindi prevedere la possibilità di tornare ad agire, al tempo presente e all’interno del setting - contenitivo e rassicurante, fornito dal metodo e dalla persona del terapeuta - entrambe le polarità emozionali ed espressive contenute nel blocco (Reich) e cristallizzate in un sottile e specifico equilibrio tra le componenti simpatica e parasimpatica del sistema nervoso vegetativo (Laborit, Goldstein, Liss). Stiamo parlando tanto della rabbia, che emerge quale amplificazione della naturale autoassertività, quando questa viene sopraffatta immotivatamente (cioè prematuramente e brutalmente, in assenza dei modi adeguati alla fase di sviluppo attraversata dal bambino o dall’adolescente), quanto del dolore, talvolta prevalente e sempre presente, per la ferita emozionale subita.
Questo può avvenire, nel contesto psicoterapeutico, quando l’analista è in grado di attivare, energizzare, sostenere e organizzare in azioni ri-solutive il conflitto psicologico e il disagio emozionale portati dal cliente accogliendone la piena espressione nei modi di un rapporto ripartivo esente da giudizio e sostenuto da una considerazione positiva incondizionata[3] per la sua umanità. Quando questo avviene, assistiamo al dis-farsi del problema attraverso la sua elaborazione più profonda e completa.
È quello che i giovani, e non solo i giovani, cercano attraverso lo scontro all’interno della famiglia, con i loro coetanei, negli stadi e nelle piazze, spesso non a torto ma sempre, purtroppo, dirigendo la propria furia, in modo cieco, verso obiettivi che poco hanno a che vedere con le ferite originarie, che in tal modo vengono lenite solo provvisoriamente, tornando presto a dolere nel profondo.
E mi riferisco, ovviamente, solo all’aspetto nevrotico della rabbia e della violenza distruttiva, non essendo qui il luogo per esprimere quanto penso della violenza sacrosanta: quella legittimata dalla necessità di preservare l’integrità individuale e la sopravvivenza personale o collettiva.
[1] Come vedremo in seguito, la violenza nevrotica, patologica, va differenziata dalla violenza sana.
[2] Come ho già scritto altrove (vedi per esempio il testo “L’arte di soffocare”, in quest’opera), nelle tribù di cacciatori-raccoglitori il processo educativo avveniva per imitazione dei comportamenti direttamente osservati e per amorevole cura. Amorevole non in virtù di principi astratti ma di evidenza diretta del principio più tardi enunciato con le parole “ama il prossimo tuo come te stesso”, perché esso è te stesso in quanto fondamentale per la tua sopravvivenza. Il Sé-tribù trascendeva e includeva l’identità personale.
[3] Nella visione di Carl Rogers, la considerazione positiva incondizionata è una delle tre qualità del facilitatore necessarie alla modificazione terapeutica della personalità (le altre sono empatia e congruenza). La considerazione positiva incondizionata è la capacità di accettare l’altro per quello che è in quel momento, senza alcun giudizio sui suoi schemi di riferimento, le sue scelte, i suoi valori, i suoi sentimenti.