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ESONE: VERIFICA SPERIMENTALE SULL’EFFICACIA DEI LABORATORI DI PRATICA BIOENERGETICA
17 Febbraio 2023
Verifica sperimentale sull’efficacia dei laboratori di pratica bioenergetica e commento su una ricerca qualitativa e quantitativa degli effetti antistress .
A cura di:
Prof. Luciano Marchino, Giorgio Lavelli, Dott.ssa Patrizia Marforio
Cliccando a questo link troverete la tabella con i grafici e le statistiche della ricerca.
Premessa
La psicologia somatorelazionale vanta una lunga tradizione che risale alle prime osservazioni condotte da Wilhelm Reich sul come e sul perché della così detta reazione terapeutica negativa all’interno della pratica psicoanalitica. Incaricato da Sigmund Freud di esplorare il fenomeno delle resistenze all’analisi che sembravano ostacolare il successo terapeutico, Reich si gettò anima e corpo nella ricerca, incurante della malevolenza di molti colleghi, più anziani e titolati, che si erano sentiti ingiustamente messi da parte dal maestro. Nel tempo, come ormai sappiamo, il livore di costoro gli si rivolse contro, arrivando a sancire la sua esclusione dalla Società Psicoanalitica di Vienna nell’anno successivo alla pubblicazione di un testo fondamentale e ancor oggi molto apprezzato dentro e fuori dal campo psicoanalitico[1]. Il suo titolo era Analisi del carattere[2] e, in una disquisizione di oltre seicento pagine, vi si affermavano - e soprattutto si dimostravano - molti principi assolutamente innovativi. Il principio più innovativo e fondamentale riguardava il ruolo del corpo nel farsi e nel disfarsi delle problematiche esistenziali dei pazienti.
Si è già scritto molto su questo tema e, soprattutto grazie alle opere di Alexander Lowen[3], il suo brillante allievo recentemente scomparso, le idee di Reich si sono diffuse per il mondo e si sono affermate evolvendosi nell’Analisi Bioenergetica. La Biosofia[4] rappresenta la più recente tendenza nel contesto di questa tradizione e, attraverso l’integrazione con la psicologia umanistica di Carl Rogers[5], ma anche e soprattutto grazie alla sua spiccata propensione per la ricerca scientifica e l’aggiornamento continuo del proprio paradigma[6], si propone come un nuovo metodo di lettura della realtà umana e come un modo, continuamente in progress, di vedere e di interpretare la relazione interpersonale: come una nuova psicologia somatorelazionale.
Wilhelm Reich aveva quindi rilevato come la storia personale si iscrive ai corpi. Il suo metodo terapeutico era la vegetoterapia carattero-analitica che, come dicono le parole stesse, fondeva in un approccio olistico la realtà profonda del corpo - il sistema neurovegetativo, che è fondamentale nel modulare lo stato d’animo - con la struttura del carattere, all’epoca considerata come non ascrivibile al corpo. Iniziava così l’esplorazione della segreta simmetria tra il corpo e la sua mente. Nei suoi cinquant’anni di attività clinica Lowen ha sviluppato questa visione, ne ha rinforzato la precisione teorica e arricchito gli strumenti terapeutici. Tra gli strumenti introdotti da Lowen quello che ci interessa qui sono gli esercizi bioenergetici.
Dagli esercizi bioenergetici ai gruppi di pratica somatorelazionale
Ad Alexander Lowen si deve una fondamentale e, al tempo stesso, ovvia osservazione: la vita di relazione prevede soprattutto la stazione eretta. In altre parole, le persone, quando interagiscono tra loro, non sono sdraiate, come sul lettino di Freud, ma stanno sulle proprie gambe. Ancora in Reich, sia pure in modo diversamente attivo, il paziente “lavorava” sdraiato. Ma Lowen, al termine del suo percorso di analisi personale con Reich, si rese conto del fatto che gli stessi sintomi che parevano superati in posizione sdraiata tornavano, in maggiore o minor misura, nel corso delle relazioni interpersonali quotidiane. Le stesse ansie, le stesse paure, le stesse incertezze, la stessa visione sintomatica della realtà.
Lowen si rese conto, prima come paziente e più tardi nella veste di psicoterapeuta reichiano, che nel contesto protetto dello studio del loro analista, le persone, sostenute somaticamente dal lettino e psicologicamente dalla figura dell’analista stesso, potevano abbandonarsi completamente e, in virtù della relazione tra mente e corpo, oggi validata dalle neuroscienze, potevano in egual misura abbandonare la propria visione sintomatica della realtà. Ma, una volta tornate sulle proprie gambe e nel contesto delle relazioni verticali, era come se qualcosa in loro dicesse: bene, la ricreazione è finita, adesso sai molte più cose di prima, rimetti la corazza e riprendi la battaglia quotidiana! In altre parole tornava ad attivarsi il pattern psico-neuro-muscolare dell’armatura (ACM) descritta nei suoi scritti e nelle sue lezioni da Reich[7].
Sapere non è essere. Sapere che cos’è la salute non significa essere sani! Lowen se n’era reso conto personalmente alla fine della sua terapia con Reich e, nella continuità degli intenti, portò la sua ricerca oltre, dove il suo maestro, travolto da una complessa situazione personale, non aveva avuto il tempo di spingersi[8]. Negli anni, Lowen non solo introdusse in modo sempre più efficace il “lavoro sulle proprie gambe” tra i momenti fondanti della sua pratica psicoterapeutica, ma mise a punto centinaia di esercizi do it yourself[9]. Questi esercizi assunsero una rilevanza sempre maggiore come complemento alla psicoterapia e finirono presto per dimostrarsi uno strumento valido in sé, indipendentemente da qualsiasi procedura analitica, per ritrovare l’equilibrio nelle situazioni di stress.
Pratico gli esercizi appresi da Lowen, ma anche da numerosi altri maestri[10] di psicoterapia somatorelazionale, da oltre trent’anni e, nel 1993, ho fondato il primo percorso di formazione per insegnanti di esercizi bioenergetici[11]. La responsabilità che mi ero in tal modo assunto mi ha indotto a una lunga e profonda riflessione sul tema, che ha trovato una prima espressione scritta nel libro La forza e la grazia, scritto a quattro mani con Monique Mizrahil[12]. È a questo punto che è nata in me l’esigenza di promuovere una verifica in vivo dell’efficacia della pratica bioenergetica.
Come la ricerca EsOne - portata a termine con la preziosa collaborazione di Giorgio Lavelli e della Dottoressa Patrizia Marforio, oltre che con l’altrettanto prezioso contributo della Dottoressa Monique Mizrahil, del Professor Flavio Panizza e della Dottoressa Cristiana Zanette - dimostra ampiamente, gli esercizi bioenergetici forniscono uno strumento altamente efficace per l’elaborazione dello stress e per il recupero di una migliore qualità di vita, indipendentemente da altre forme di intervento quali la psicoterapia o il counseling. Gli esercizi si prestano quindi altrettanto bene come complemento dell’una o dell’altra e come strumento del tutto autonomo di evoluzione personale, perché possiedono la capacità di dissolvere, e spesso di risolvere, le tensioni psicosomatiche di stato che prendono corpo nel corso delle normali interazioni quotidiane, quando ci troviamo ad affrontare situazioni relazionali complesse: cioè molte volte nel corso di ogni giornata di normale attività all’interno di una società, pluriarticolata e spesso ruvida, come quella attuale. A maggior ragione le tensioni prendono corpo quando ci troviamo ad affrontare stati di cambiamento, di conflitto e di crisi, situazioni queste che si connettono direttamente alla realtà del cliente in counseling o in psicoterapia.
Stress di tratto e stress di stato due aspetti della condizione umana
Come Reich aveva magistralmente dimostrato[13], la struttura del carattere di ciascuno di noi non è un’astrazione culturale, fondata sull’interiorizzazione di concetti appresi attraverso l’assorbimento, più o meno passivo, degli elementi portanti della cultura formale in cui ci evolviamo. In altre parole non si tratta solo di essere stati esposti per un periodo sufficientemente lungo a una scolarizzazione di maggiore o minore qualità. E neppure di aver avuto genitori a loro volta scolarizzati in modo adeguato. Tutto ciò conta, naturalmente, e la generalizzazione dell’accesso allo studio è senz’altro una conquista irrinunciabile, ma la costruzione del carattere, è ormai nozione comune anche a chi ancora non dia credito alla visione somatorelazionale, precede e incide, in modo sempre più evidente, sul come le diverse nozioni verranno utilizzate nel quotidiano da ciascuno di noi. La struttura del carattere prende corpo, infatti - secondo matrici evolutive arcaiche di interazione tra l’individuo e la sua società - all’interno del microcosmo famigliare nel corso della prima e della seconda infanzia, fasi fondamentali di cristallizzazione della duttilità caratteriale originaria in matrici stabili e affidabili di lettura della realtà e di interazione col mondo. Se, come sembra dimostrato in campo biologico, il nostro DNA non è cambiato da epoche assai remote (si parla del paleolitico), non dobbiamo meravigliarci che il salto culturale, sociale, industriale e tecnologico degli ultimi decenni abbia creato, per noi esseri umani, un vero e proprio shock culturale generalizzato che, come ogni altro trauma, si iscrive al corpo in modo indelebile. I cuccioli d’uomo, che ancora nascono col medesimo DNA dei loro antenati del paleolitico, si trovano quindi ad affrontare, sin dalla nascita, l’impatto di una condizione sociale aliena e, per questo, alienante. Il risultato è l’attivazione di un sistema di difesa e di interiorizzazione culturale arcaico, soggetto, a causa della troppo rapida evoluzione tecnologica, a forti distorsioni rispetto all’aspettativa genetica.
Dallo stress incorporato durante il periodo critico di formazione del carattere (dalla nascita al periodo di latenza, secondo molti autori), origina la struttura psico-neuro-muscolare del carattere che, stabilizzandosi, assume le forme e i modi di un’armatura al tempo stesso difensiva e offensiva: l’armatura carattero-muscolare (ACM) descritta da Reich sin dagli anni ’30. Come antichi cavalieri, una volta indossata l’armatura ne diventiamo prigionieri e solo con l’intervento di un thérapòs, un aiutante adeguatamente istruito, ce ne possiamo liberare quando le circostanze lo consentono. Abbiamo appena descritto, ma la copiosa letteratura in merito ci consentirebbe oggi approfondimenti ben altrimenti dettagliati, come prende corpo quello che chiameremo stress di tratto: lo stress che caratterizza, in assenza di specifici interventi psicoterapeutici, ogni aspetto dell’intera vita di ciascuno. Volgiamoci ora alla comprensione dello stress di stato.
Stress di stato: il farsi e il disfarsi del problema
Nel medesimo periodo storico in cui Wilhelm Reich esponeva le sue teorie relative alla relazione tra mente e corpo, lo studioso olandese Hans Selye[14] focalizzava la sua attenzione sul fenomeno dello stress, arrivando a descriverlo come una risposta aspecifica dell’organismo a ogni richiesta sollecitata dall’ambiente. Il concetto era destinato, come tutti sappiamo, a un grande successo. La principale differenza tra i due ricercatori è, a mio avviso, nell’accento posto dal primo sulla costruzione della personalità e quindi sullo studio della psicologia evolutiva dal punto di vista psicoanalitico, mentre il secondo si focalizzava sugli effetti patologici dal punto di vista medico, sia nella fase attiva dello stress sia nel periodo immediatamente seguente, senza alcun riferimento agli aspetti caratteriali del paziente. Per entrambi lo stress (parola che descrive ottimamente le condizioni all’origine dell’ACM) è una reazione adattiva fisiologica che può essere prodotta da una grande quantità di stimoli, tra i quali giocano un ruolo fondamentale quelli di tipo emotivo[15]. Mancando però dei concetti di carattere e di tipi caratteriali, Selye non sapeva spiegarsi perché i medesimi stressor potessero produrre risposte anche molto diverse, che potevano spaziare dall’ulcera alla depressione, dall’infarto alla schizofrenia[16]. Quella di stress di stato rimane quindi una nozione legata tanto al qui e ora quanto a un passato prossimo dell’individuo, indipendentemente dalle fasce d’età. La relazione tra i due tipi di stress si individua nel fatto che lo stress di stato tende a organizzarsi sulla base della matrice difensiva precedentemente dimostratasi la più efficace, tra quelle disponibili secondo il limitato repertorio operativo del bambino, e mantenuta nel corso del tempo, nei modi strutturali (assetto neuromuscolare) e ideativi (assetto psiconeuronale) dell’adulto. Lo stress sarebbe dunque, in questa prospettiva, un fenomeno psiconeuromuscolare, come l’armatura caratteromuscolare descritta da Reich.
La descrizione selyeana dello stress è al tempo stesso molto semplice ed esaustiva, per lo meno per comprenderne gli elementi fondamentali. Secondo l’autore, la reazione di stress si comporrebbe di tre fasi. La prima è la fase di allarme nel corso della quale si manifestano essenzialmente modificazioni di carattere biochimico. Essa è però caratterizzata anche da un altro elemento, psicologicamente importante, perché le modificazioni di carattere biochimico sono sempre accompagnate da modificazioni del tono emotivo e del tono muscolare. Così se l’eccitazione (allarme) suscitata da un intenso e appagante rapporto sessuale si risolverà nella liberazione di benefiche endorfine, che elevano il tono dell’umore e rilassano la muscolatura (eustress), la prolungata esposizione a stressor minacciosi, come un capufficio persecutorio e ipercritico, comporterà un aumento della produzione di adrenalina e un’elevazione del tono muscolare in direzione della tensione. Quando lo stimolo permane per un tempo sufficientemente lungo, il sistema nervoso centrale (SNC) smette di registrarlo e lo rimuove dal livello di consapevolezza. Saremo quindi tesi senza più accorgercene. Questo meccanismo dipende dal fatto che, per motivi di economia interiore (energetica e funzionale), il sistema nervoso centrale smette di registrare gli stimoli quando questi rimangono stabili per un periodo sufficientemente lungo, probabilmente perché finisce col considerarli neutri rispetto alle tematiche legate alla sopravvivenza. È l’esperienza, che tutti abbiamo avuto, di notare che uno stimolo era presente nell’ambiente (ad esempio la ventola di un condizionatore) solo quando lo stimolo cessa: il SNC è sensibile alle variazioni ma si distrae, per focalizzarsi su variazioni in atto, quando lo stimolo rimane costante.
La seconda fase descritta da Selye è probabilmente la più pericolosa, egli la definisce fase di resistenza. La pericolosità della fase di resistenza dipende da almeno tre fattori. Innanzi tutto in questa fase lo stress non è più avvertito con l’intensità iniziale e l’organismo smette di identificarlo come potenzialmente nocivo, tanto a livello psichico quanto a livello corporeo. In altre parole la persona si abitua alla situazione: “Fattene una ragione!”. Ma, e questo è il secondo rischio, mantenendo lo stato di attivazione, l’organismo perde la capacità di abbandonarsi e di concedersi fasi di recupero (ad esempio dorme poco e male). Finisce quindi per spendere (energeticamente) più di quanto possa permettersi per vivere al di sopra delle proprie possibilità, ma non se ne rende conto a causa dei meccanismi di rimozione dalla consapevolezza che abbiamo descritto in precedenza.
È una situazione molto comune al giorno d’oggi e coincide con la pressione mercantile al consumo esagerato delle risorse. In fondo facciamo a noi stessi quello che stiamo facendo al pianeta che abitiamo: lo spremiamo sino all’osso incuranti delle conseguenze, per il solo fatto che così fan tutti. Ma l’illusione di poter spendere indefinitamente più di quanto ci si possa permettere, è sostenuta oggi anche dalla diffusione massiva del tratto caratteriale narcisista la cui peculiarità, accanto a una cieca arroganza, è quella di investire il massimo delle proprie risorse a sostegno dell’immagine, illudendosi di poter eludere le necessità strutturali dell’organismo: sia esso il nostro corpo psichico o il pianeta. Soggettivamente quindi corriamo il rischio, in questa fase, di rimanere abbagliati dalla sensazione di aver sin qui vissuto al di sotto delle nostre potenzialità reali e di esserci finalmente risvegliati al nostro meritato splendore: “Sì! È così! Non sapevo di essere così in gamba!”. L’insieme di tali fattori, e certamente di altri, che sarebbe interessante ma impegnativo esaminare ora, conduce a una situazione di indebitamento energetico e, alla fine, di crollo. A mio avviso, ciò a cui stiamo assistendo a livello sociale in questi anni (2013), non è affatto dissimile da quanto avviene a livello intrapersonale e interpersonale durante la terza fase dello stress descritta da Hans Selye: può avvenire di tutto e nessuno sembra sapere come porvi rimedio.
Per intervenire efficacemente nella terza fase di esaurimento sarebbe, infatti, necessaria una approfondita conoscenza dell’economia interiore della persona, ma a questo si oppongono numerosi fattori: il primo è proprio l’emergenza in atto, il secondo è di certo la complessità degli esseri umani, il terzo è l’impossibilità di trattare le persone come se fossero tutte la stessa persona e quindi di applicare al signor B ciò che si era dimostrato efficace per il signor A. Considerando inoltre che il signor A risponderà allo stress con un infarto del miocardio, il signor B con un’ulcera, il signor C con dolori cervicali e la signorina D con ripetuti attacchi di panico. Al medesimo stressor ciascuno risponde secondo la propria natura, o meglio, in armonia con la visione della psicologia somatorelazionale, secondo la sua seconda natura che nasce dal compromesso tra il patrimonio (genetico) originario e le leggi di mercato dell’interazione umana. Talvolta questa ultime andrebbero riviste e corrette, in direzione di un maggior atteggiamento biosofico, cioè con l’intento di comprendere la natura umana invece di pretendere di piegarla ai nostri fini particolari.
Come spesso accade, osservazioni importanti per la comprensione della condizione umana prendono l’avvio dall’osservazione di quanto accade ad altre specie animali. È il caso degli studi di Henri Laborit e altri sullo stress[17]. Nel corso dei suoi esperimenti, Laborit, in cerca di un farmaco per curare gli effetti dello stress, sottoponeva le proprie cavie a stressor costituiti da scosse elettriche. Egli notò che cavie a cui veniva offerta una possibilità di sottrarsi alle scariche, ad esempio spostandosi in un’area della gabbia isolata dall’elettricità grazie a un pavimento di legno, tendevano a non presentare i tipici sintomi (perdita del pelo, epidermide untuosa, tachicardia, innalzamento della pressione arteriosa, diarrea e così via) che affliggevano le cavie immobilizzate o poste in condizione di non potersi sottrarre alle scariche. Sin qui possiamo solo costatare l’analogia con noi esseri umani quando, per qualche motivo, ad esempio professionale, non siamo nelle condizioni di sottrarci agli stimoli nocivi, come la rumorosità ambientale o l’atteggiamento persecutorio di un datore di lavoro. Un’osservazione importante ai nostri fini ha però a che vedere con l’interazione delle cavie tra loro. Messe in condizione di non potersi sottrarre alle scariche, infatti, due o più cavie, poste nella stessa gabbietta, tendevano a reagire agli stimoli aggredendosi reciprocamente. Quando questo avveniva, le cavie tendevano a non ammalarsi, ma si ferivano reciprocamente in modo vistoso. Impotenti rispetto a un avversario oscuro e/o non affrontabile, le cavie erano però in grado di attivare le proprie risorse difensive attaccando un avversario “credibile” e alla loro portata, e questo le preservava dalla malattia. Anche questo comportamento non è estraneo al repertorio umano (come nella tipica situazione in cui un genitore, stressato sul luogo di lavoro, rientra a casa e aggredisce chi può) e, se anche tende a contenere gli effetti più evidenti dello stress, di certo non contribuisce a facilitare le relazioni interpersonali e tende ad attivare nuove, future, sorgenti di stimoli ferenti. Credo che, in proposito, ciascuno possa attingere a una ricca aneddotica personale!
Un evento particolare fu però alla base di un’ulteriore serie di osservazioni. Si costatò che se tra le due cavie veniva posta una griglia di separazione, che impediva loro di ferirsi reciprocamente, il solo fatto di poter attivare la propria reazione, specie specifica, verso un avversario “credibile” preveniva la malattia. Siamo qui in presenza di una particolare applicazione del processo di attribuzione di senso noto in psicologia come simbolizzazione: il solo potersi scagliare contro l’avversario presunto attivava le risorse psiconeuromuscolari delle cavie prevenendo la comparsa dei sintomi.
E questa è la base scientifica del metodo somatorelazionale che ci permette di riattivare le risorse interiori degli allievi nel corso delle sessioni di pratica bioenergetica e di portarli, attraverso fasi di attivazione simpatica e parasimpatica, verso il riequilibrio del sistema nervoso autonomo e verso il conseguente stato di benessere. Un benessere profondamente radicato nella fisiologia e quindi strutturale e tendenzialmente stabile. Lo stabilizzarsi dello stato di benessere, attraverso la reiterazione dei processi di pratica bioenergetica, tende inoltre a evidenziare i luoghi dell’incongruenza attraverso la riattivazione del sentire (non dimentichiamo che il SNC è sensibile alle differenze) e la presa di coscienza del come, del dove e del quando le tensioni somatiche si riattivano. Ciò permette ai praticanti di raggiungere due obiettivi diversi e tra loro complementari: da un lato consente di identificare le reali sorgenti dello stress, cioè le situazioni in cui il disagio comincia a manifestarsi a livello psichico e/o corporeo, dall’altro rende evidente la presenza di abitudini tensorie precedenti e ne facilita l’identificazione e l’elaborazione attraverso nuove sessioni di pratica o, quando si rivela necessario, attraverso sedute di counseling o di psicoterapia.
Non dobbiamo peraltro dimenticare che gli esercizi bioenergetici e, a maggior ragione, la pratica bioenergetica a orientamento biosofico che ne ha colto l’essenza elaborandola nella continua creazione di armonie psicocinetiche, non sono una semplice ginnastica[18]. Ben oltre gli esercizi ginnici e a differenza di questi, la pratica bioenergetica è orientata all’elaborazione dei vissuti emozionali e dei costrutti mentali che a questi si accompagnano. L’elaborazione comunque non avviene, nel corso della pratica, attraverso la verbalizzazione ma attraverso lo scioglimento delle tensioni psicocorporee che a tali costrutti sempre si accompagnano.
Gli esercizi si fondano sempre sulla comprensione degli elementi strutturali e strutturanti dell’armatura (ACM). È solo elaborando la base psicosomatica del conflitto che l’elaborazione dei conflitti irrisolti del quotidiano può arrivare a compimento. Per tornare all’esempio delle cavie di Laborit, l’energia bloccata nel corso degli eventi traumatici (come, ad esempio, un affronto subito al quale non si è potuta dare, per qualsiasi ragione, la risposta adeguata) rischia, se non opportunamente elaborata, di trasformarsi in un sentimento cronicamente e invasivamente presente nelle nostre vite come risentimento, disprezzo, autodisprezzo, diminuzione della libido, desiderio cronico di vendetta, rimuginazioni ossessive, odio o depressione, per nominarne solo alcuni. Avendo lavorato con animali, Laborit non poteva di certo osservare questi effetti, che sono oggi compresi e accettati dalla maggior parte dei medici come immediatamente correlabili alle patologie gastrointestinali, pressorie, tensorie e defedanti che Laborit rilevò con regolarità nelle cavie e che possono trasformarsi, in tempi drammaticamente brevi, in malattie psicosomatiche di impressionante virulenza. Ma è proprio la soluzione naturalmente attuata dalle sue cavie, che si aggredivano “simbolicamente” attraverso la grata divisoria, a confermare la validità degli esercizi espressivi, largamente utilizzati nella pratica antistress per facilitare l’attivazione energetica e l’espressione dei sentimenti (da sentire) e delle passioni (da patire, subire) sino alla loro scarica completa attraverso il suono e il movimento, finalmente congruenti con l’esperienza interiore.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che, quasi un secolo prima di Laborit, Freud stesso aveva individuato nella scarica emozionale (abreazione) l’elemento chiave della risoluzione dei conflitti nevrotici e, ri-soluzione, non guasta ricordarlo, significa rendere ancora fluido ciò che si era rattrappito e cristallizzato per congelare un conflitto apparentemente inaffrontabile: non potendo fuggire, non potendo aggredire, l’organismo si finge morto per evitare, o per lo meno per anestetizzarsi rispetto a ulteriori aggressioni. È un espediente comune nel regno animale ma che, solo nel genere umano, tende a stabilizzarsi in uno stato di mortificazione cronica che, per questa ragione, è sempre più inavvertita e spesso razionalizzata nei più diversi modi: “È la vita”, “È inutile prendersela”, “Tanto non cambia niente” e così via.
La pratica antistress
Sulla base di quanto sin qui esposto sarà probabilmente più facile comprendere perché la pratica antistress si componga di quattro fattori, o momenti, che l’insegnante esperto organizza scrupolosamente. Essi si ispirano alla formula suggerita, molti anni or sono, da Wilhelm Reich[19] e suffragata da una messe di autori :
- tensione: l’organizzazione delle tensioni psicosomatiche con cui il praticante si presenta e che si correla con alti livelli di adrenalina e con eccesso di attivazione simpatica. La tensione viene prima resa accessibile alla consapevolezza (mindfullness) e in un secondo tempo accresciuta al fine di suscitare, da parte dell’organismo, una risposta autonoma che spesso emerge attraverso l’emissione di suoni spontanei e involontari e l’apparire di sottili o più ampie vibrazioni involontarie[20];
- carica: attraverso appositi momenti/esercizi volontari si dà inizio a uno scioglimento delle tensioni muscolari che si associa all’ampliamento involontario della respirazione naturale, dando così inizio alla liberazione di endorfine e accrescendo l’autopercezione somatica (felt sense). In questa fase si osserva spesso l’insorgere di un significativo aumento delle vibrazioni involontarie attraverso le quali il corpo cerca di liberarsi della tensione in eccesso. Si attiva inoltre l’emergere di ricordi, rimossi o semplicemente accantonati, del passato prossimo;
- scarica: energici esercizi di espressione dei sentimenti negativi associati a suoni aggressivi o brevi espressioni verbali - “Va via!”, ”Basta!”, ”Lasciami stare!” - e alla visualizzazione o, meglio, all’evocazione del destinatario dei vissuti in atto. Il sentimento di autorealizzazione e di riparazione del torto subito che a questo si associa sostiene la liberazione di endorfine e distende ulteriormente la muscolatura che fu contratta per contenere, là e allora, il gesto inibito. Là e allora il gesto fu inibito spesso per ottimi motivi, ma oggi quel gesto può trovare, nel contesto della pratica, la sua piena espressione libera da conseguenze spiacevoli, permettendo alla respirazione di diventare ancor più libera e profonda;
- distensione: è la parte conclusiva della sessione. Attraverso semplici esercizi a terra di armonizzazione tra respiro e movimento si libera un ulteriore flusso di endorfine accompagnato da sensazioni di appagamento, di pacificazione, di completezza, di pienezza, di gratitudine e, talvolta, da un pianto liberatorio.
Alla fine di una sessione di pratica la maggior parte dei partecipanti ha vissuto in tal modo un’esperienza profondamente risanante, non perché ragionata o intellettualizzata (“Te ne devi fare una ragione, il tuo capo è fatto così”) o passivamente sopportata (“È la vita!”), ma sperimentando la possibilità di riattivare le proprie risorse e i propri potenziali energetici, corporei, emozionali, immaginativi e cognitivi.
Recentemente un’equipe del Massachusetts General Hospital di Boston ha evidenziato come l’apprendimento di semplici tecniche di “meditazione” abbia prodotto in tempi molto brevi (otto settimane con sedute giornaliere di 10 o 20 minuti) una vera e propria variazione nel comportamento genico dei soggetti, diminuendo l’attività di alcuni geni nocivi per la salute e aumentando quella di altri, viceversa benefici, che regolano la glicemia, prevengono l’invecchiamento cellulare e intensificano la produzione di energia nella cellula (Plos One, 2013). L’aspetto a mio avviso più clamoroso è che il cambiamento molecolare avveniva nel giro di pochi minuti dopo la singola seduta di “meditazione”. Ho voluto aggiungere quest’ultimo dato per evidenziare la simmetria tra la proposta dei ricercatori di Boston ai loro soggetti e i contenuti fondanti della pratica bioenergetica. In entrambi i metodi, la pratica è centrata sulla respirazione, sul suono (mantra nella ricerca americana) e sul rilassamento e ha come risultato finale una intensificazione nella produzione di energia a livello della cellula: evidenziata strumentalmente a Boston e percepita vivamente da ogni partecipante ai laboratori esperienziali di Milano. È lecito chiedersi, a questo punto, quali mutamenti a livello genico potremmo rilevare, se ne avessimo i mezzi, nei partecipanti a una sessione di pratica bioenergetica!
La ricerca esOne
Con la ricerca esOne ci siamo riproposti di sottoporre a una verifica, inizialmente qualitativa e in seguito quantitativa, l’efficacia delle sessioni di pratica bioenergetica per la prevenzione e per l’elaborazione dello stress di stato.
Per quanto l’esperienza individuale, nostra e dei molti allievi, ci avesse da tempo convinti del fatto che una classe di pratica sortisce, sul piano psicosomatico, il medesimo effetto rigenerante che una buona doccia sortisce su un corpo bisognoso di pulizia (un gran senso di sollievo), eravamo in cerca di una dimostrazione da poter condividere con chi non avesse avuto l’opportunità di una verifica personale diretta. Abbiamo quindi progettato un questionario di autovalutazione da sottoporre agli allievi delle classi prima e dopo una sessione di pratica. L’obiettivo è stato quello di valutare gli stati dell’essere degli allievi, tanto sul piano fisico quanto su quello emozionale, tramite una scala a punti.
Le sensazioni fisiche esaminate sono state di due tipi: sensazioni negative (fiato corto, stanchezza, nervosismo, indolenzimento e rigidità) e quale unica sensazione positiva il radicamento, parola che dirà poco a chi sia estraneo alla materia e con cui si designa, in area bioenergetica, una particolare sensazione di sé connotata da sensazioni di benessere, interezza, padronanza e congruenza o dalla loro assenza o parzialità: in base a tali parametri una persona si dice più o meno radicata.
Sul piano emotivo sono state analizzate due sensazioni di tipo negativo (tristezza e rabbia) e quattro di tipo positivo (calma, libertà, fiducia e vitalità, qualità connesse al radicamento/grounding). Le classi di pratica erano costituite da un campione non selezionato di allievi vecchi e nuovi, cioè alla loro prima esperienza, delle classi di pratica già attive presso il Centro Radix di Milano. Abbiamo così potuto evidenziare, per la prima volta, alcuni dati sui quali non avevamo ancora avuto l’occasione di riflettere come: l’elevata scolarità degli allievi (il 59% degli intervistati è laureato), l’età media (stimata attorno ai 43 anni, con un 78% tra i 30 e i 49), la situazione famigliare (49% single) e la ripartizione sessuale (66% donne). Sono emersi inoltre un profilo professionale particolarmente alto e un profilo di sviluppo personale particolarmente ricco e profondo. L’insieme di questi dati fornisce un primo abbozzo per la comprensione di questo particolare segmento dell’area dei creativi culturali, definizione che secondo Cheli e Montecucco illustra un nuovo soggetto sociale la cui specificità è appunto l’apertura a nuove idee e a nuove operatività indirizzate tanto al sociale che alla cura di sé.
Relativamente all’autovalutazione dello stato corporeo (“Come mi sento fisicamente prima e dopo il laboratorio?”) si è notato che, all’inizio delle classi, una significativa porzione del campione presentava una netta sensazione di stress (29%), con un ulteriore 3% di allievi che si sentivano sotto forte stress. Al termine della classe la percentuale delle persone sotto stress si era ridotta all’1% mentre nessun allievo si percepiva sotto forte stress! A conferma di questo dato rileviamo che l’area di benessere si era estesa dal 14% al 64% con la comparsa del 4% di allievi che dichiaravano uno stato di pieno benessere.
Relativamente allo stato emotivo, prima della pratica la percentuale di allievi sotto forte stress percepito saliva al 7% (0% al termine) con un 33% di stress ridotto all’8% alla fine della pratica. Solo il 10% degli intervistati dichiarava di sentirsi emotivamente bene all’inizio delle classi, dato che sale al 53% alla fine delle esperienze, con la comparsa di un 3% di pieno benessere.
La raccolta dei dati è avvenuta in cinque momenti distinti all’interno di sei diverse classi (per un totale di circa 70 allievi), condotte da quattro diversi professionisti. Né gli allievi né i professionisti in questione venivano avvisati preventivamente. Ne consegue che era casuale sia il numero dei presenti in ciascuna classe, sia la scelta degli esercizi da parte degli insegnanti che, di volta in volta, hanno lavorato seguendo il principio della sintonizzazione emotiva, la propria intuizione e l’estro creativo del momento.
Per quanto ciò possa apparire poco scientifico agli adepti dei paradigmi meccanicisti, è opinione di chi scrive che un risultato netto e clamoroso come quello evidenziato dai dati non avrebbe potuto realizzarsi in condizioni diverse come, ad esempio, somministrando agli allievi un preciso, rigido protocollo: sempre identico, trasmesso con un tono di voce neutro, senza contatti di alcun genere e così via. Siamo consapevoli, nel presentare i risultati di questa ricerca, di inserirci volontariamente nel dibattito riguardante la possibilità o meglio l’impossibilità di sottoporre ad analisi scientifica dati relativi alla soggettività dell’esperienza umana. D’altra parte anche la possibilità attuale di rilevare dati più sottili, ma non per questo soddisfacenti, grazie all’applicazione delle moderne tecniche di brain imaging, per quanto utile a evidenziare la relazione tra mente-corpo e ambiente non è, per ora, in grado di render conto dei reali contenuti e dei vissuti relativi al processo esperienziale.
Quindi, pur non ignorando la rilevanza dei fenomeni intersoggettivi che possono aver influenzato la stesura dei protocolli da parte degli allievi, come il desiderio di validare il metodo della pratica bioenergetica da essi stessi prescelto, o di compiacere i loro insegnanti, o ancora di dimostrarsi in qualche modo bravi (ma i questionari erano rigorosamente anonimi) siamo dell’opinione che proprio perché tutto ciò è semplicemente umano, quello di cui dobbiamo tener conto è il risultato finale delle procedure e proseguire nella la ricerca di ulteriori dati a conferma, o a sfavore, di quelli raccolti in questa prima indagine.
Abbiamo tenuto conto inoltre del possibile effetto placebo. Riguardo a questo ci siamo sentiti confortati dai risultati di numerosi studi, dovuti soprattutto al dottor Ted Kaptchuk di Harvard pubblicati dalla prestigiosa rivista di neuropsicologia Plos One (2010). Secondo Kaptchuk l’effetto placebo (parola latina che significa “io ti darò piacere”) va riletto e compreso nella sua reale potenzialità terapeutica. Uno degli aspetti considerati dall’autore è, infatti, che l’effetto placebo, potenziato da un atteggiamento rispettoso, accogliente, gentile e positivo dell’operatore può ottenere su patologie chiaramente identificate e clinicamente verificabili (come la sindrome da intestino irritabile), risultati analoghi a quelli ottenibili con i migliori farmaci.
Le modalità descritte, evidentemente sorprendenti per la classe medica, sono ormai patrimonio comune e universalmente accettato all’interno dei paradigmi umanistici da almeno mezzo secolo e sono state riassunte da Carl Rogers nella celeberrima enunciazione dell’atteggiamento positivo incondizionato[21]. Esse sono di certo parte del modus operandi degli insegnanti di pratica bioenergetica ma, lungi dal ridurre la significatività del suo intero paradigma, la rafforzano con un elemento non ancora pienamente compreso e integrato dalla classe medica ma, non per questo, meno reale e importante: l’empatia.
È stato prezioso per l’organizzazione dei dati e per l’intero progetto di ricerca l’impegno di Giorgio Lavelli e della dottoressa Patrizia Marforio, a sua volta praticante e insegnante di pratica bioenergetica.
Cliccando a questo link troverete la tabella con i grafici e le statistiche della ricerca.
[1] Sharaf, M., Fury on earth, a biography of Wilhelm Reich, St. Martin’s/Marek, St. Martin’s/Marek, New York, N.Y. 1983.
[2] Reich, W., Analisi del carattere, SugarCo, Milano 1973.
[3] Lowen, A., Bioenergetica, Feltrinelli, Milano 1983.
[4] Biosofia è un neologismo da me introdotto per spiegare il mio personale orientamento all’interno del sistema delle psicoterapie corporee. Tale orientamento, accettato oggi da numerosi colleghi, sottolinea l’importanza, per il terapeuta, di porre il minor numero possibile di filtri cognitivi tra se stesso e il paziente. Ciò gli permetterà di essere presente, nella relazione diadica, come una persona che ne incontra un’altra e che, ascoltandola, l’accompagna a dipanare i punti cruciali della storia di cui è portatrice.
[5] Carl Rogers è stato uno dei padri fondatori della psicologia umanistica. Autore di molti testi che hanno radicalmente modificato la visione di come il terapeuta dovrebbe porsi nei confronti del suo paziente, che egli chiama cliente proprio per sottolineare la necessità di una relazione più egualitaria, Rogers è stato anche tra i primi a sottolineare quanto sia importante, per il successo di una psicoterapia, che il terapeuta sia acutamente consapevole di quanto il suo modo di porsi possa essere rilevante al di là del metodo utilizzato. Tra i suoi testi disponibili in lingua italiana: Potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario, Astrolabio, Roma 1978.
[6] Del Giudice E., Giasanti A., Marchino L., Essere Umani, Franco Angeli, Milano 2013.
[7] Reich, W., Analisi del carattere, op.cit.
[8] Sharaf, M., Fury on earth, a biography of Wilhelm Reich, op.cit.
[9] Lowen A., Lowen L., Espressione e integrazione del corpo in bioenergetica, Astrolabio, Roma 1979.
[10] Negli anni settanta e ottanta mi sono esposto alla sensibilità e alla competenza di numerosi maestri. Tra questi, non fosse altro per la rilevanza qualitativa e quantitativa del loro insegnamento, mi sembra opportuno ricordare Jules Grossman, della San Francisco State University, uomo di grande esperienza e sensibilità etica, con il quale ho lavorato intensivamente, per tre anni, come paziente e allievo; e la coppia, terapeutica e didattica, formata da Katherine e Malcolm Brown, cofondatori del metodo da loro denominato Psicoterapia Organismica, dei quali sono stato paziente e allievo per un decennio. Sia Grossman che i Brown hanno introdotto un personale repertorio di pratiche individuali ispirato alla loro visione. In particolare i Brown erano attenti al lavoro di contatto nutritivo di coppia, mentre Grossman insisteva, talvolta, sul lavoro immaginativo e sulla pratica del suono, introducendo anche mantra tradizionali.
[11] Responsabile I.I.B.A. del primo corso di formazione per psicoterapeuti in Analisi Bioenergetica di Milano era il Professor Renato Monaco, di Newport. Nella mia veste di direttore del corso avevo avuto modo di conoscerlo in modo approfondito e di apprezzarne la competenza e la spiccata umanità. Fu dunque a lui, per primo, che sottoposi l’idea di organizzare una specifica formazione per insegnanti di esercizi. Mi rispose che gli pareva un’idea interessante, ma io stesso non mi sarei sentito, a quel tempo, pronto: era il 1983. Dieci anni più tardi, sentendomi ormai pronto al grande passo, interpellai la dottoressa Maria Luisa Aversa, direttrice didattica della Società Italiana di Analisi Bioenergetica, e con lei diedi vita all’Istituto di Psicologia Somatorelazionale e al primo corso di formazione per insegnanti di esercizi bioenergetici: era il 1993.
[12] Marchino L., Mizrahil M., La forza e la grazia, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
[13] Reich, W., Analisi del carattere, op. cit.
[14] Hans Selye (1907, 1987) medico austriaco, è noto per i suoi studi sullo stress e sulla sindrome di adattamento generale. Il suo testo più significativo, pubblicato nel 1956, porta il titolo The stress of life.
[15] Pancheri, P., Stress Emozioni Malattia, Mondadori, Milano 1980.
[16] Per un approfondimento sul tema del carattere: Marchino L., Mizrahil M., Il corpo non mente, Sperling, Milano 2011.
[17] Il contributo degli studi di Laborit al paradigma della psicologia somatorelazionale è stato dettagliatamente analizzato da Jerome Liss e David Boadella in La psicoterapia del corpo, Astrolabio, Roma 1986.
[18] Tra i numerosi testi oggi a disposizione del lettore italiano, oltre a La forza e la grazia e a Espressione e integrazione del corpo in bioenergetica, già citati, mi sembra opportuno ricordare Bioenergetica per tutti di Maria Stallone Alborghetti (Universo Ed., Roma 2003), testo riccamente illustrato di una delle figure più significative dell’A.B. in Italia. E, anche, Che cos’è l’Analisi Bioenergetica, di Alessia Capecchi, testo semplice ma corretto e ben documentato di una psicoterapeuta di grande competenza.
[19] Reich W., La funzione dell’orgasmo, SugarCo, Milano, 1969.
[20] Baggio G., Esercizi bioenergetici e vibrazioni, cenni di neurofisiologia, ilmiolibro.it, 2011.
[21] Rogers C., La terapia centrata sul cliente, La nuova Italia, Firenze 1997.