Il corpo nella Psicoterapia Centrata sul Cliente
A cura di Paolo Ballarin
Il presente testo è un capitolo contenuto del volume “Sguardi di cura”, a cura di Anfossi M.,
edizioni Alpes, Roma, 2013
Confesso che sono afflitto dal modo in cui certi piccoli spiriti
si invaghiscono di una teoria qualunque e la innalzano
come se essa rappresentasse “la” verità o un dogma.
Se noi fossimo disposti a prendere i sistemi teorici
per quello che sono,
vale a dire delle specie di buste in filigrana contenenti
i dati pregnanti della realtà,
allora questi sistemi potrebbero svolgere la loro funzione,
vale a dire l’incoraggiamento del pensiero creativo
Carl Rogers
Siamo corpo e nient’altro che corpo
Omero
Questo scritto si propone di portare una riflessione intorno all’utilizzo del lavoro corporeo in psicoterapia. È questo un tema per me caro da più di venti anni e per molti aspetti ancora aperto e oggetto di ricerca e di interrogativi.
Per diverso tempo i miei studi, ricerche e pratiche di lavoro ad orientamento corporeo, in ambito psicologico ma non solo, si sono sviluppati in modo parallelo rispetto alla formazione e alla pratica della Psicoterapia verbale Centrata sul Cliente. Da alcuni anni invece sia nella facilitazione di gruppi sia nella psicoterapia individuale e di coppia sono emerse in modo potrei dire quasi naturale e spontaneo forme di affiancamento e di integrazione delle due. Il desiderio di approfondire e comprendere meglio le possibilità e i limiti di questa integrazione sono alla base di questo scritto.
In particolare, vorrei portare l’attenzione sull’assunto che l’aspetto realmente caratterizzante il modo di lavorare in psicoterapia comprendendo ed eventualmente coinvolgendo direttamente il corpo non risiede tanto nel cosa si fa, nell’utilizzo di particolari metodologie, ma piuttosto in base alla visione paradigmatica della natura umana, delle relazioni e del cambiamento in cui uno si riconosce e che realmente pratica.
Quale psicoterapia?
Facciamo alcuni passi indietro: la nascita e lo sviluppo della psicologia umanistica e dell’Approccio Centrato sulla Persona di Carl Rogers si collocano storicamente in un periodo in cui il mondo della psicologia era dominato da due scuole di pensiero: la psicoanalisi e il comportamentismo. Ciò che accomuna questi due modelli, per tanti versi così differenti tra loro, è di essere entrambi collocati all’interno del paradigma scientifico meccanicistico e riduzionistico. Questo paradigma si rifà alla visione newtoniana del mondo, che si basa a sua volta sulle premesse filosofiche enunciate da Descartés, di cui è nota la netta e irriducibile separazione della realtà tra res cogitans (lo spirito pensante) e res extensa (la natura e le cose, tra cui il corpo). Ognuna di esse risponde a leggi proprie, sebbene, è importante notare, esse si influenzino a vicenda attraverso l’azione della ghiandola pineale. In ambito psichiatrico questa visione della realtà si traduce nella adozione del modello bio-medico ai problemi della sofferenza mentale ed emozionale, in ambito psicologico e psicoterapeutico nella ricerca di modelli e teorie altrettanto “forti” di quelli medici e quindi ad esempio nella costruzione di un complesso sistema di leggi psichiche che governano il mondo inconscio e che si riflettono sul nostro equilibrio e benessere, oppure nella definizione dei meccanismi che regolano il condizionamento dei nostri comportamenti da parte degli stimoli ambientali esterni.
Sebbene non abbiano un unico punto di riferimento teorico e metodologico, gli psicologi e psicoterapeuti che si riconoscono nel movimento della psicologia umanistica condividono alcuni elementi basilari che li differenziano in modo caratteristico dal resto della comunità scientifica psicologica: si differenziano dagli psicoanalisti per spostare l’attenzione dal mondo inconscio e dalla patologia alla costruzione cosciente dell’esperienza, alla ricerca attiva del benessere e alle relazioni reali con le altre persone e con l’ambiente. Sostengono inoltre che alla base della vita psichica non ci sia un conflitto intrinseco e inevitabile, ma che il conflitto interno derivi piuttosto dalla presenza di condizioni ambientali che non favoriscono il funzionamento della personalità come un tutto organizzato e armonico (per quanto talvolta non privo di sofferenza e di sentimenti tra loro contrastanti). La differenza di posizioni rispetto ai comportamentisti è per certi versi ancora più netta, a partire dalla visione dell’essere umano non come passivamente subordinato a leggi deterministiche di causa-effetto (il modello stimolo - risposta), ma come soggetto spinto da motivazioni interne proprie e attivamente impegnato nella costruzione di significati e di senso della propria esistenza. Caratteristica della psicologia umanistica è quindi la visione dell’essere umano come un tutto organizzato e capace di autodeterminazione¹.
Il fondamento organismico della Terapia Centrata sul Cliente (TCC)
L’opera di Carl Rogers è fortemente impregnata di una grande attenzione verso le ricerche nell’ambito della biologia, della fisica e in generale delle scienze naturali. Questa attenzione si colloca all’interno di una concezione dell’essere umano come un sistema complesso in cui le diverse componenti biologiche, emozionali, cognitive, esistenziali e anche spirituali costituiscono parti di un tutto interconnesso. Questa stessa concezione viene estesa da Rogers non solamente verso tutti gli esseri viventi, ma verso la realtà in generale: alcuni passaggi dei suoi scritti testimoniano di una visione di grande respiro che connette la dimensione umana con il funzionamento di altre forme di vita e anche con ogni livello del nostro universo. In particolare, parlando della tendenza attualizzante, Rogers scrive: “ (…) non si tratta semplicemente di una tendenza nei sistemi viventi, bensì di un aspetto della più marcata tendenza formativa del nostro universo, che si manifesta a tutti i livelli. Così, quando forniamo un clima psicologico che permette all’individuo di essere (…) non siamo coinvolti in un evento casuale. Attingiamo ad una tendenza che permea tutta la vita organica – una tendenza a divenire tutta la complessità di cui è capace l’organismo.”²
Nei suoi scritti Rogers insiste quindi marcatamente ed esplicitamente su una visione della natura umana caratterizzata basilarmente da due tendenze: il principio olistico (la tendenza dell'organismo a funzionare come un tutto organizzato) e il principio dinamico (la tendenza attualizzante). Anche in questo caso, per illustrare e sostenere le sue tesi Rogers attinge ampiamente da studi e ricerche di autori provenienti da ambiti che spaziano dalla psicologia, alla neurologia, alla psichiatria, alla fisica, alla biologia, alla filosofia (come ad esempio Fritjof Capra, Ilya Prigogine, Kurt Goldstein). L’idea fondamentale della vita umana come un processo in continua trasformazione e direzionato secondo un principio di auto-organizzazione e di fondamentale equilibrio con l’ambiente è ancorato ad una concezione di tipo naturalistico: “L’organismo realizza se stesso nel senso della massima differenziazione di organi e funzioni. L’organismo tende ad espandersi attraverso la crescita (…)
Procede verso una sempre maggiore indipendenza e auto responsabilità. Progredisce (...) nella direzione di un autogoverno, di una autoregolazione e autonomia sempre maggiori (...) Ciò vale sia per i processi organici interamente inconsci, come la regolazione del calore corporeo, sia per le funzioni prevalentemente umane e intelligenti come la scelta degli obbiettivi della propria vita. Infine l’autorealizzazione dell’organismo è orientata nel senso di una sempre maggiore socializzazione nella sua accezione più ampia.”³.
Rogers si riferisce quindi continuamente all’essere umano come “organismo”, il cui funzionamento è basato sulle funzioni sensoriali e percettive corporee: “Così, ha luogo uno stretto abbinamento, o congruenza, tra ciò che viene sperimentato a livello fisico, ciò che è presente alla coscienza e ciò che viene espresso dal cliente. (...) Quando un sentimento precedentemente rimosso affiora alla consapevolezza entro la relazione terapeutica, ed è sperimentato pienamente e in modo accettante, non vi è la sola percezione di un movimento psicologico ben definito, ma si registra anche un concomitante cambiamento fisiologico”.⁴ Il funzionamento fisiologico riveste per Rogers una importanza fondamentale e l’attenzione per la dimensione corporea, in quanto fonte delle percezioni su cui si basa l’esperienza organismica, accompagna in modo evidente tutto il suo lavoro: “Proprio come il bambino attribuisce a un’esperienza un valore sicuro, basandosi sull’evidenza dei suoi stessi sensi, così il cliente scopre che è il suo stesso organismo a fornire l’evidenza su cui fondare i giudizi di valore. Si accorge che i suoi stessi sensi, il suo stesso apparato fisiologico forniscono i dati per elaborare giudizi di valore e per correggerli con un processo continuo”⁵; “E’ l’accento eccessivo sul conscio e sul razionale, e la svalutazione della saggezza del nostro organismo che ci impedisce di vivere come esseri umani unificati, integrali.”⁶
La costruzione del proprio mondo esperienziale non avviene evidentemente in modo meccanico e predeterminato né casuale e caotico, ma attivo, continuamente mutevole, emotivamente significativo e accompagnato da bisogni, desideri, progetti, da una spinta verso la ricerca di una vita quanto più significativa possibile. La piena salute, la realizzazione di sé è concepita nei termini della capacità di fare affidamento sulla propria esperienza e sulla possibilità di simbolizzare le esperienze sensoriali e viscerali in modo coerente con il concetto di sé. Com’è noto, l’esperienza organismica e il concetto di sé sono per Rogers le componenti della personalità. Senza entrare nel merito dei filtri e delle distorsioni a cui può essere sottoposto il processo di simbolizzazione, vorrei invece portare qui l’attenzione sulla complementarietà necessaria tra l’apertura all’esperienza viscerale e l’integrazione cognitiva di tale esperienza: senza la prima la coscienza e il concetto di sé risulterebbero rigidamente fondati su credenze, valori e costrutti introiettati dall’esterno, senza la seconda l’esperienza sarebbe un caotico agglomerato di percezioni viscerali senza un significato radicato nella coscienza individuale: “la maggior parte di noi consiste di due parti separate, che tentano disperatamente di riunirsi in un soma integrato, dove e distinzioni tra mente e corpo, sentimento e intelletto, siano infine superate.”⁷ Sebbene Rogers prenda le distanze dalla iniziale definizione di “terapia non direttiva” per definire il suo modo di lavorare, in quanto riduttivo e possibile fonte di fraintendimento, questa componente rimane chiaramente centrale nel suo approccio, come logica conseguenza della concezione di auto-organizzazione del vivente. Per questo motivo nella TCC l’enfasi è posta sulla relazione terapeutica in quanto fondamentale fattore terapeutico⁸, che si declina nelle note condizioni necessarie e sufficienti alla promozione del cambiamento.
Rispetto alla possibilità di introdurre forme di lavoro corporeo, la questione fondamentale mi sembra che diventi allora il rischio che questo possa acquisire un carattere di giudizio valutativo rispetto all’esperienza e al suo significato per il cliente da parte del terapeuta. Infatti “perché il processo terapeutico sia efficace, bisogna che si effettui in funzione dell’ esperienza del cliente, non in funzione di teorie e principi estranei a questa esperienza”.⁹ D’altra parte nello stesso testo si
legge anche: “quello che conta in questa psicoterapia non è l’assenza di direttive, ma la presenza nel
terapeuta di certi atteggiamenti verso il cliente e di una certa concezione delle relazioni umane”; “è bene distinguere tra ‘non dare delle direttive’ e ‘non avere direzione’ (...) Ogni situazione terapeutica è quindi impregnata di direzione, cioè di significato orientato, per quanto non direttivo sia l’atteggiamento del terapeuta”.¹⁰
La mia ipotesi è che sia possibile introdurre nella relazione terapeutica una dimensione di lavoro orientata al corpo senza per questo perdere la qualità fondamentalmente non direttiva della relazione e senza perdere la fiducia nel processo di autoregolazione dell’organismo del cliente, in un modo che segua il flusso dell’esperienza del cliente, che ne faciliti un contatto sempre più profondo e autentico e che ne faciliti la simbolizzazione autonoma.
Così come alcune scuole di psicoterapia ad orientamento corporeo stanno prendendo le distanze da metodologie di lavoro direttive, interpretative e basate sulla diagnosi e sulla “lettura del corpo”, cercando di appoggiare le eredità cliniche e teoriche dei diversi contributi psico-corporei su un impianto epistemologico olistico e fenomenologico e di integrare al contempo le proprie concezioni e approcci terapeutici con le più recenti ricerche delle neuroscienze¹¹, all’interno del movimento rogersiano alcuni terapeuti si sono interessati e avvicinati sia alle neuroscienze (Zucconi A., Silani G., 2011) che al lavoro corporeo (Tremante M., 2003), avviando un dibattito e un filone di ricerca (che pure non vede al momento corrispondente mole di pubblicazioni) a mio avviso estremamente fecondo, in cui sono centrali al contempo l’attenzione per le possibilità di arricchimento reciproco e il riconoscimento e mantenimento delle differenze.
Approcci olistici in evoluzione
Abbiamo oggi a disposizione una grande quantità di dati provenienti dalle ricerche neuroscientifiche e dalle ricerche ed esperienze cliniche che ci permettono di allargare in modo significativo gli orizzonti delle reciproche influenze tra soma, psiche e ambiente e dunque dei nostri approcci terapeutici.
In particolare, la scoperta dei neuroni specchio ha rappresentato un punto di svolta in questo ambito, offrendo la conoscenza delle basi fisiologiche dell’empatia: “non appena vediamo qualcuno compiere un atto o una catena di atti, i suoi movimenti, che lo voglia o meno, acquistano per noi un significato immediato; naturalmente vale anche l’inverso: ogni nostra azione assume un significato per chi la osserva. Il possesso del sistema dei neuroni specchio e la selettività delle loro risposte determinano così uno spazio d’azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena d’atti, nostri o altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi, senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata operazione conoscitiva” (Rizzolatti G., Sinigaglia C., 2006). Come ha sottolineato Gallese (Gallese V., Migone P., Eagle M.N., 2006), ci troviamo quindi come esseri umani in uno stato di consonanza intenzionale con altri esseri umani, nel senso che l’osservazione sia dei comportamenti che delle espressioni che denotano sensazioni ed emozioni negli altri acquistano per noi un significato prima di qualsiasi ragionamento e decodifica intenzionale e consapevole e questo significato è fin dal principio dotato di una propria intenzionalità e finalità. Il modo in cui conosciamo dall’interno l’esperienza di un’altra persona è quindi basato su meccanismi fondamentalmente corporei.
Occorre comunque una certa cautela nel trarre delle conclusioni, soprattutto dal punto di vista clinico, a partire da queste scoperte, che sono in continua evoluzione e che necessitano di essere considerate in un’ottica di complessità, dove, ad esempio, si tengano in considerazione non solo i meccanismi di consonanza, ma anche quelli di differenziazione (Ruggiero G., Iacone S., 2011). Molto interessante da un punto di vista clinico è anche la teoria polivagale di Stephen Porges (2001), il quale integra il classico modello binario di ripartizione del sistema nervoso autonomo con un modello tripartito. Secondo la visione neurofisiologica classica il SNA è suddivisibile in sistema simpatico e parasimpatico. Il sistema simpatico ha funzione attivante e catabolica (utilizzo dell’energia) ed è responsabile delle reazioni di attacco/fuga mediate da adrenalina e noradrenalina.
Il sistema parasimpatico ha funzione anabolica (risparmio, o recupero di energia) e quindi riduce l’attivazione e facilita il riposo ed è connesso con i sistemi dell’attaccamento e della socializzazione. Porges distingue invece tre differenti sistemi di regolazione emozionale, collegati a differenti sistemi neurofisiologici e differenti stadi di sviluppo filogenetico: il più recente è collegato con il nervo vago mielinizzato ed ha una funzione fondamentale nel modulare gli stati affettivi e il comportamento sociale (social engagement system). Si occupa della sintonizzazione relazionale face-to-face ed è il sistema al quale ricorriamo in condizioni generali di sicurezza. In una situazione di pericolo si attiva un secondo sistema che fa capo al sistema nervoso simpatico e che coinvolge l’attivazione principalmente dell’amigdala e dell’ipotalamo, con principale mediatore l’adrenalina. Siamo all’interno dei meccanismi attacco/fuga e quindi di evitamento attivo. In caso di iperattivazione, episodica o cronica, l’organismo può avere reazioni disadattive, o nel senso di reazioni incontrollate e di panico oppure nel senso del congelamento ipertonico. Infine, in caso di pericolo estremo, dove ci sia rischio di vita, viene attivato il sistema più antico filogeneticamente, collegato a livello anatomico con il nervo vago non mielinizzato. In queste situazioni l’organismo valuta che una reazione di attacco/fuga non sia praticabile e quindi “decide” per reazioni di evitamento passivo, di immobilismo. È questa una reazione estrema che può risultare adattiva in casi di estremo pericolo nel senso dell’ evitamento della fonte del pericolo (si pensi agli animali che si immobilizzano e non vengono più visti dai predatori, oppure non cacciati perché creduti morti), oppure nel senso di perdere la connessione con le sensazioni (sono preda dell’aggressore, ma non sento più niente), se invece non riesco a sottrarmi alla fonte di pericolo, si può creare quella situazione psicofisiologica caratteristica della situazioni post traumatiche, caratterizzata da una forte attivazione corporea che non ha potuto completarsi sul piano fisiologico e muscolare e quindi che diventa cronica, e al tempo stesso dalla disconnessione dell’ippocampo dall’amigdala, che “permette” di non percepire le emozioni connesse con l’evento traumatico.
Come evidenzia Giovanni Tagliavini (2011), questo modello offre interessanti spunti di comprensione e di intervento clinico, in particolare in relazione alle forme di attivazione organismica e di regolazione emozionale, che si prestano molto bene ad una qualche forma di intervento centrato sul corpo.
Come accennato, le ricerche sui meccanismi psico-fisiologici e corporei implicati nei traumi e disturbi post traumatici da stress offrono a loro volta ulteriori chiavi di lettura per comprendere la complessità dell’interazione tra il livello sociale e relazionale, quello psicologico, quello organico fisiologico.
Belsen Van der Kolk (2004) ha evidenziato come i traumi abbiano l’effetto di interrompere la connessione tra l’amigdala, responsabile di dare un “significato” emozionale alle percezioni provenienti direttamente dal talamo o dalla corteccia prefrontale, e l’ippocampo, sede della mappa cognitiva deputata alla costruzione dei ricordi. Conseguenza di questo è che gli eventi traumatici sono iscritti nel corpo ma non mentalizzabili e quindi non raccontabili. Un lavoro verbale che andasse a forzare in tale direzione sarebbe nella migliore delle ipotesi inefficace e nella peggiore rappresenterebbe una riedizione del trauma, non simbolizzabile.
Come dice Peter Levine (1997), la risoluzione del trauma passa allora attraverso il ripristino e il completamento dell’azione fisiologica di risposta all’accadimento traumatico. Per fare questo occorre ancorare la persona ai suoi vissuti corporei, in particolare ogni volta che si immerge in scenari traumatici. Occorre promuovere la capacità di autoregolazione e quindi la capacità di evitare il rischio sempre presente di scivolare in una situazione di sovraccarico emozionale (Stupiggia M., 2007).
Pat Ogden (2006) a sua volta ha elaborato un modello di intervento, definito modulation model, che utilizza il concetto di finestra di tolleranza di Siegel (1999). “Finestra di tolleranza” si riferisce agli stati di attivazione (arousal) che rappresentino più o meno delle condizioni di agio e di gestibilità da parte delle persone: al di sopra e al di sotto di tale finestra la persona entra in uno stato di iper o ipo attivazione, vissuto come grave minaccia.
Nei casi di trauma, ma non solo, una delle principali problematiche è rappresentata da una disregolazione emozionale, ragione per cui diventa particolarmente significativo aiutare la persona a sviluppare capacità di percepire e regolare i propri stati interni in modo da rimanere all’interno della finestra di tolleranza, o perlomeno in una zona di confine, sufficientemente padroneggiabile e al tempo stesso fonte possibile di cambiamento. Questo tipo di regolazione è definito bottom-up (in contrapposizione alla regolazione top-down): dalle sensazioni, alle emozioni, alla simbolizzazione cognitiva (Shore, 2003)
Appare quindi chiara l’indicazione di un lavoro corporeo, o l’integrazione del proprio approccio terapeutico con modalità orientate al corpo, per quanto condotto con grandissima cautela e sensibilità, per il trattamento di persone che soffrono delle conseguenze di esperienze traumatiche. L’infant research, grazie anche agli studi delle interazioni precoci madre-bambino con sofisticate tecniche di ripresa video, ha portato l’attenzione sulle complesse dinamiche relazionali che si attivano sin dai primi momenti di vita.
Come fa notare Ammaniti (2006), è solo a partire dal secondo anno di vita che si sviluppa e si attiva
l’ippocampo, struttura fondamentale per la memoria narrativa. Questo significa che prima di allora la memoria rimane di tipo implicito e quindi radicata nel corpo.
In realtà gli scambi impliciti, cioè che avvengono al di fuori della consapevolezza razionale, si realizzano durante tutto l’arco della vita e rappresentano una percentuale senza dubbio significativa degli scambi relazionali che avvengono tra due persone (compresi terapeuta e paziente/cliente). Due persone in relazione sono quindi costantemente impegnate in processi sia di auto che di etero regolazione e per la maggior parte in modo non consapevole. Come sappiamo, tali scambi possono essere più o meno sintonizzati, in termini di intensità, qualità e ritmo (Stern D., 2006).
Tronik (2008) parla di sistema comunicativo-affettivo per descrivere un insieme di espressioni, sguardi, posture, intonazioni vocali e le correlate modificazioni fisiologiche. All’interno di questo sistema i partner della relazione (sia che si tratti di madre e figlio, sia del terapeuta e paziente/cliente) sono impegnati nei rispettivi processi di regolazione emozionale, che avvengono all’interno di un spazio intersoggetivo, e sono costantemente esposti al rischio di “rotture relazionali”. L’esito di una buona relazione madre-bambino, così come di una relazione terapeutica, non sta nella assenza delle inevitabili rotture relazionali, quanto nella capacità del terapeuta (e della
coppia terapeutica) di riparare tali rotture. Beebe e Lackman a loro volta nel descrivere le micro pratiche corporee che caratterizzano in particolare gli scambi madre-bambino, ma anche tutte le relazioni significative, parlano di
meccanismi di matching, mismatching e repair per descrivere rispettivamente la riuscita, la rottura e la riparazione della sintonizzazione. Anche qui, sembra che l’elemento fondamentale di una buona relazione non sia tanto la continuità di sintonizzazione (mediamente circa il 30% del tempo che la madre trascorre con il bambino), quanto piuttosto la capacità della coppia relazionale di riparare i momenti di non sintonizzazione.
Tutti questi scambi avvengono primariamente sul piano corporeo e si prestano sia ad una comprensione che ad intervento che metta il corpo al centro dell’attenzione. “(...) prima della parole ci sono le azioni o i movimenti. Poiché noi non possiamo comprendere niente delle parole se non ci muoviamo nello spazio e nel tempo delle parole, ma quando ci muoviamo nel mondo attraverso il tempo e lo spazio questo crea metafore primarie che emergono dall’esperienza corporea” (Stern D., 2006, pag.34).
Di grande interesse sono anche le ricerche della psico-neuro-endocrino-immunologia che porta la sua attenzione sul ruolo che la vita emozionale può rivestire nelle malattie organiche (Ader R., 2007; Biondi M., 1997; Pancheri P., 1993); le indagini sugli stati modificati di coscienza (Lapassade G., 1996; La Barbera D., La Cascia C., Mulé A., Rumeo M.V., 2011) e sugli effetti della meditazione sull’organismo (Carosella, A. Bottaccioli F., 2003; Siegel D.J., 2007); il valore della spiritualità nella vita delle persone (Perino F., 2003 e lo stesso Carl Rogers¹²) e anche le contaminazioni sempre più frequenti che si stanno verificando in ogni parte del mondo tra sistemi di cura “moderni” e “tradizionali”, questi ultimi spesso portatori di una visione meno parcellizzata e più globale dell’essere umano (Nathan T., 1989; Coppo P., 2003; Beneduce R., 1997).
Quelle citate nel presente paragrafo rappresentano alcune aree di interesse per una comprensione della salute, della sofferenza e della realizzazione degli esseri umani in una prospettiva globale, olistica, che evidenzi l’apporto fondamentale che può derivare dalla inclusione della dimensione corporea nell’orizzonte della psicoterapia.
Il corpo in psicoterapia
Mi accorgo talvolta di adottare con i clienti un atteggiamento un po’ più attivo del solito: di proporre ipotesi sul significato che potrebbero avere certe esperienze, di suggerire definizioni sul modo di funzionare della persona, di dare feed-back particolarmente decisi e incisivi e anche di portare l’attenzione al corpo o addirittura di proporre una attenzione ai processi corporei in atto, basandomi su mie percezioni o intuizioni, più che su quanto il cliente sta esplicitamente e forse anche implicitamente vivendo ed esprimendo in quel momento. A volte questo atteggiamento mi pare funzionale e proficuo: mi sembra che sia comunque collocato all’interno di una relazione complessivamente basata sulla profonda comprensione empatica e sulla accettazione non giudicante e che la persona in questione abbia in quel momento bisogno di una presenza più attiva da parte mia, oppure anche che il mio comportamento sia derivato da una comprensione più profonda di quanto io stesso sia pienamente consapevole.
Altre volte mi accorgo che mi trovo invece in difetto di quel grado altissimo di qualità di presenza che richiede una relazione d’aiuto realmente “centrata sulla persona”. Sono momenti questi in cui più profondamente mi pare di prendere coscienza della complessità e della difficoltà di questo modo di lavorare e mi rendo conto di come ricorrere a delle tecniche, o anche solamente mettere in primo piano una qualsiasi mappa psicologica o psicopatologica piuttosto che il mondo soggettivo della persona che ho di fronte, rappresenti in certi momenti una tentazione tanto forte quanto effimera e alla lunga inefficace. In questi casi diventa per me di fondamentale importanza ritornare ai fondamenti dell’approccio, centrarmi più pienamente e profondamente su me stesso, rendendomi al tempo stesso più cosciente e più distaccato dai miei stati interni (viscerali, corporei, emozionali, cognitivi), predispormi ad un atteggiamento che escluda qualsiasi forma di bisogno da parte mia che il cliente cambi più rapidamente o “meglio” e rendere disponibile tutto il mio intero organismo ad una profonda sintonizzazione con il cliente.
In particolare, questa sintonizzazione, soprattutto nelle circostanze in cui mi sembra di funzionare al meglio come facilitatore, mi pare implicarmi in un modo così globale che mi risulta difficile definire in modo separato le diverse componenti (emotive, cognitive, corporee). Esse sono infatti presenti contemporaneamente e in modo integrato e lo sono in un modo che possono alternativamente o simultaneamente presentarsi in modo più esplicito alla mia coscienza e alla mia attenzione, oppure rimanere per così dire silenti, seppure in qualche modo disponibili. In quei
momenti mi pare di potermi in qualche modo riconoscere in quella descrizione che Rogers ha dato dei suoi migliori momenti di facilitazione di gruppi o singoli clienti: “Noto che quando sono più vicino al mio Sé interiore e intuitivo, quando sono in qualche modo in contatto con l’ignoto in me, quando sono forse in uno stato di coscienza lievemente alterata, allora tutto ciò che faccio sembra possedere un’intima qualità curativa. Allora, la mia semplice presenza è liberante e utile per l’altro”¹³. In quei momenti i miei interventi possono essere principalmente centrati sul canale verbale oppure su quello corporeo.
DS è un uomo di 50 anni. È venuto da me circa un anno fa perché aveva paura di stare male come in passato, quando l’ansia era diventata intollerabile e i pensieri persecutori molto invalidanti. Ha già fatto una psicoterapia che ha però interrotto a causa della sensazione di essere controllato e manipolato. Questo vissuto appare collegato con le esperienze vissute con i genitori, entrambi estremamente disconfermanti e controllanti. Il padre è morto da circa due anni. DS vive con la madre, con la quale ha un rapporto molto conflittuale e tormentato, caratterizzato da una intensa rabbia repressa e da forti sensi di colpa. Ora sta decisamente meglio rispetto a quando abbiamo iniziato, anche se la sua apertura all’esperienza nella vita è ancora piuttosto limitata: ogni ipotesi di attività al di fuori del lavoro e dell’uso del computer continua ad essere difficilmente affrontabile. Alterna momenti di profondo contatto con le sue emozioni ad altri in cui entra in un circolo vizioso di intellettualizzazioni e di ansia crescente.
In questo periodo si sta permettendo di contattare emozioni legate alle vessazioni subite da parte del padre, sino ad ora escluse dalla consapevolezza e questo gli dà sia un senso di maggiore integrità sia di fragilità. Inizia la seduta raccontandomi con molti dettagli di come un servizio in televisione sulla cattura di un boss mafioso lo abbia profondamente colpito e messo in una condizione di ansia e tristezza¹⁴.
DS: “...ho avuto la stessa sensazione di paura, di abbandono che avevo provato tanto tempo fa... mi ha molto colpito...”
Terapeuta: “hai avuto paura”
DS: “si, e quel senso di abbandono...”
T: “abbandono... ”
DS: “però... è strano... non so perché... mi veniva da piangere... non ho mai provato questa sensazione”
T: “ti ha molto colpito... e anche ti sei detto: certo che in questo momento sono particolarmente sensibile...”
DS: “si”
T: “sensibile ai temi dell’ingiustizia, della sopraffazione... e dell’abbandono”
DS: “perché... forse mi viene in mente mio padre... però non so... sembrava che quell’uomo fosse cattivo, si vedevano le immagini dei poliziotti felici e anche la giornalista in televisione diceva che era un uomo crudele che aveva uccise tante persone... però sicuramente lui aveva molte persone che gli volevano bene, tante persone che aveva aiutato, a cui aveva trovato lavoro e cose così... e allora penso a mio padre, che faceva quelle cose... magari anche lui pensava di aiutarmi, pensava che da solo non potevo farcela... però non lo so... magari non c’entra niente...”
DS dice queste cose gesticolando e facendo dei profondi sospiri. Ho la percezione che stia esplorando un insieme di sensazioni, emozioni e pensieri che percepisce essere in qualche modo significativi e al tempo stesso di cui avverte il potenziale pericoloso. Forse, penso, sta contattando sia le emozioni connesse al vissuto di essere stato perseguitato così a lungo da “un padre crudele”, sia il suo affetto per lui, sia la paura di prendere pienamente contatto con le emozioni di risentimento e di rabbia. Prima che cambi rapidamente discorso, come spesso fa nei momenti di maggiore tensione, addentrandosi in qualche ragionamento tanto meticoloso quanto inconcludente, decido di invitarlo a mettersi in contatto con le sensazioni corporee
T: “come ti senti mentre dici queste cose?”
DS mi guarda con uno sguardo interrogativo, quasi non capisse la domanda, poi sorride “normale...” dice e si agita un poco sulla poltrona. Noto che il suo respiro si fa più superficiale. Percepisco uno stato di tensione nel mio corpo, sento che anche il mio respiro si sta bloccando, mi permetto allora di autoregolare il mio stato mettendomi comodo nel corpo: respiro profondamente e aggiusto la mia posizione sulla poltrona “forse non è facile contattare queste sensazioni e queste emozioni”
DS: “ si ...”
T: “hai voglia di dire come ti senti nel corpo?
DS: “normale... bene... si, insomma... normale...” ride nervosamente e rimane in silenzio per circa un minuto “credo che ci sia qualcosa di difficile qui... però mi piacerebbe fare come abbiamo fatto altre volte, entrare in contatto con quella parte che mi fa stare male... però non saprei come fare”
T: “c’è una parte che ti fa stare male, che vuoi contattare, anche se è difficile”
DS: “si... si nasconde... non so niente di questa parte”
T: “si nasconde... e pure altre volte l’hai contattata...”
DS: “si...”
T: “vorresti esplorare queste emozioni e ti chiedi che cosa potrebbe saltare fuori questa volta, forse qualcosa di pericoloso”
DS: “rabbia... c’è rabbia”
T: “rabbia...”
DS: “si... non solo quello però... c’è sicuramente rabbia e anche... qualcos’altro che sta insieme...”
T: “qualcosa che si mischia con la rabbia”
DS: “si... a volte sento che potrei piangere... ma io non voglio piangere”
T: “non voglio piangere!”
DS: “No... però sento che questo non va bene... forse sarebbe meglio che mi sfogassi... però sento che quella parte lì mi dice di non farlo”
DS si dilunga in una descrizione piuttosto intellettualizzata di diverse emozioni che lo attraversano e che combattono tra di loro per avere il sopravvento. Ripete che sente l’impulso di piangere ma qualcosa non glielo permette
T: “e se piangi che cosa succede?”
DS abbassa la testa e sembra intensamente concentrato ad ascoltare le proprie sensazioni “è difficile... che cosa succede? niente succede...” A questo punto è in corso in DS una lotta tra le parti che spingono per far accedere alla coscienza le percezioni relative al conflitto di cui sta parlando e quelle che le bloccano “è come se ci fosse una fortezza dentro di me... e se piango viene espugnata...”
T: “se piango la fortezza crolla”
DS: “non crolla, viene conquistata” dice e descrive con molti particolare com’è fatta la fortezza e dei pericoli di una sua conquista. È molto concentrato, respira profondamente.
T: “e dentro la fortezza c’è una parte di te”
DS. “proprio così... una parte che se le mura crollano muore... però mi fa paura andare a vedere dentro”
T: “c’è qualcosa di pericoloso... e di delicato, bisogna avvicinarsi con cautela”
DS: “si... avvicinarsi con cautela” e protende le mai e il corpo davanti a sé lentamente come per raggiungere qualcosa
T: “se fosse qui davanti a te come ti avvicineresti? Te la senti di esplorare questo?”
DS: “si” dice prontamente e si alza in piedi¹⁵
Invito DS a mettersi in contatto con le sensazioni che provengono dal corpo, a lasciar andare il respiro in modo più libero e a sentire il contatto dei piedi a terra. Dice che ora ha la chiara percezione della fortezza di fronte a sé e che vorrebbe romperla, distruggerla e accompagna queste parole con un gesto ampio della mano e del braccio, come a spazzare via la fortezza, ma senza una precisa direzione nello spazio. Lo invito allora a ripetere il gesto rivolgendosi in modo più chiaro e definito verso la fortezza. Dopo che ha ripetuto alcune volte il gesto, con una intensità e precisione crescente, dico:
sono D e voglio distruggerla!”
DS ripete il gesto e la frase con un filo di voce e poi soffia fuori tutta l’aria e scuote la testa “non ce la faccio...” ma subito dopo ripete ancora il gesto e la frase, con grande sforzo e con crescente intensità “è difficile, mi manca la forza”
Lo invito nuovamente a percepire il contatto dei piedi a terra e a prendere forza da lì, rimanendo in ascolto delle sue sensazioni e seguendo quello che è per lui buono momento per momento. Ripete ancora gesto e frase, in modo sempre più deciso “mi sento debole” dice con le braccia e le spalle cadenti e subito dopo: “vorrei dargli un pugno, ma ho paura di rompere qualcosa”. Di fronte a noi c’è un divano su cui appoggio alcuni cuscini e gli chiedo se ha voglia di dare realmente un pugno, senza rompere niente e senza farsi male. Accetta subito e inizia a colpire i cuscini. Lo accompagno quindi in un breve ma molto intenso momento, in cui colpisce con sempre più forza i cuscini.
Accompagnato e incoraggiato da me, si permette di lasciare uscire dei suoni, prima più deboli e inarticolati, poi più forti e infine grida: “vaffanculo!” e crolla disteso sul divano. Mi siedo accanto lui, accompagnandolo nella fase di recupero. Il respiro si fa gradualmente più regolare e il corpo lentamente rilascia le tensioni. È la curva energetica che passa dalla massima attivazione del sistema nervoso simpatico al parasimpatico (Liss J., Stupiggia M., ).
DS apre gli occhi e mi guarda “mi sento meglio... mi fa male la mano ma mi sento meglio...”
T: “a parte il dolore alla mano, come ti senti nel corpo?”
DS: “sento una apertura qui” indica la zona del petto dal diaframma alla gola “una apertura luminosa che mi fa sentire bene, mi dà piacere... mi sto riprendendo dallo sforzo, sto recuperando le forze”
T: “cos’hai provato mentre davi i pugni?”
DS: “mi sentivo intero... sentivo rabbia, ma soprattutto la forza di poter decidere”
T: “la forza di poter decidere... di poter far cadere le mura della fortezza e decidere se essere arrabbiato, piangere o qualsiasi altra cosa senti”
DS: “si... è così...”
In un precedente articolo (Ballarin, 2009) riflettevo sulle possibilità di considerare il corpo in psicoterapia “intruso, ospite o soggetto”: in un paradigma riduzionistico e meccanicistico il corpo in psicoterapia è senza dubbio un intruso. Questo paradigma si basa infatti sulla premessa della maggior differenziazione e separazione possibile tra ambiti e livelli diversi e quindi senz’altro tra mente e corpo. Come nell’approccio biomedico le emozioni del medico e del paziente non hanno una loro legittima collocazione e riconoscimento, così nella terapia della psiche il corpo diventa al massimo un “oggetto” di attenzione , diventa il contenitore della mente, l’involucro da cui derivano stimoli e pulsioni viscerali incomprensibili e incontrollabili se non portandoli al vaglio e sotto il controllo della razionalità o interpretandoli secondo significati simbolici. Il corpo può allora diventare ospite, là dove sono costretto a prendere atto di non poterlo tenere fuori dalla porta, poiché i suoi stati influenzano la psiche dei miei pazienti/clienti (e magari perché mi accorgo che altrimenti rimangono essi stessi –i pazienti/clienti- fuori dalla porta). In quanto ospite me ne interesso come sostanzialmente un estraneo, uno straniero del quale tradurre il linguaggio oscuro e incomprensibile. Oppure, in quanto ospite gradito, mi rivolgo ad esso come il mio (o tuo, o suo) corpo, indico la terapia come un lavoro sul corpo, mi occupo delle interazioni tra mente e corpo e di malattie psico-somatiche. Ma: non sono forse tutte le malattie “psicosomatiche” (nel senso che esprimono una disfunzionalità e una sofferenza della persona globale)? E poi: chi è questo “io” che ha un corpo? Il corpo di chi? Io sono un corpo, tanto quanto sono le mie emozioni, sono la mia storia, i miei pensieri, tanto quanto sono “parte di” (di gruppi, della società, dell’universo). Una tale ospitalità concessa al corpo non ricorda in fondo la visione cartesiana, più sopra accennata, di una psiche (anima) separata dal corpo, sebbene a questo connessa?
Si pone allora a mio avviso la questione di come accogliere nella pratica concreta del lavoro terapeutico questo soggetto complesso, che risponda più al concetto di Leib (“corpo vivente”) che di Korper (corpo fisico inanimato), seguendo la distinzione di Edmund Husserl. Tutti i possibili interventi centrati sul corpo acquistano infatti diverso significato a seconda di quale sia il paradigma complessivo di riferimento, cioè la cornice all’interno della quale si colloca la visione del terapeuta della natura umana e la sua concezione del cambiamento e quindi quale sia il suo atteggiamento relazionale complessivo: quello che, anche nella mia esperienza, risulta decisivo è infatti, al di là delle specifiche metodologie, esserci come persona globale in relazione con un’altra persona globale (magari pur restando su un piano di interazione puramente verbale).¹⁶
In particolare, nella mia esperienza clinica, trovo estremamente utile portare l’attenzione sui processi di regolazione emozionale. L’emozione è qui intesa con Antonio Damasio (1994) come la valutazione di come sto nel corpo ed è un fenomeno complesso, che implica differenti livelli dell’organismo: da quelli di base implicati nei processi di arousal, a quelli che regolano il metabolismo e i meccanismi di attacco/fuga e in generale il movimento, fino alla corteccia, che aggiunge senso alle reazioni sottocorticali. Come detto più sopra, la regolazione emozionale può realizzarsi sia attraverso meccanismo top-down che bottom-up e può interessare principalmente un processo di autoregolazione o di eteroregolazione.
Nel processo terapeutico è ovviamente sempre presente un livello relazionale e quindi di (reciproca) etero-regolazione, e al contempo di autoregolazione da parte di entrambi i protagonisti dell’interazione.
Il corpo è sempre naturalmente in qualche forma coinvolto in questi processi, sia a livello del sistema nervoso, che degli organi interni, che muscolo-scheletrico. È quindi possibile cogliere segnali provenienti dal canale espressivo corporeo (ad esempio colorito della pelle, posture, gesti, respiro) per meglio comprendere i vissuti del cliente ed entrare in risonanza empatica, e anche utilizzare in modo attivo il canale corporeo portando l’attenzione e interagendo con il cliente attraverso questo canale.
Le stesse scuole di psicoterapia corporea hanno a mio avviso generalmente portato la prevalente attenzione alla dimensione “strutturale” e/o simbolica del corpo, a discapito della valorizzazione del movimento espressivo, spontaneo e creativo, componente che a me sembra di fondamentale importanza per la salute e il benessere degli esseri umani (Laban R., 1959; Moreno J.L.).¹⁷ Kestenberg ad esempio, riprendendo e approfondendo il lavoro di Laban, evidenzia la fondamentale relazione fra le funzioni motorie e quelle psichiche, in particolare fra specifici schemi e ritmi motori che hanno inizio fin dalla nascita, e che accompagnano particolari momenti dello sviluppo del bambino. Kestenberg considera gli schemi motori di base e le funzioni psichiche come interdipendenti e in reciproca influenza. Ad esempio, osservando il flusso della forma corporea presente sin dalla nascita, che si allarga e si restringe, si allunga e si accorcia, protrude e si ritrae, sostiene che questo movimento ritmato rappresenti un sistema di autoregolazione primario del sé.
SA è una donna di 35 anni¹⁸. È venuta da me circa sei mesi fa, dopo che si era conclusa l’ennesima relazione con uomo, secondo un copione che sembra prestabilito, dove lui è l’uomo misterioso e sfuggente e lei la damigella sensibile che dovrebbe cambiarlo e che alla fine viene abbandonata. Mentre entriamo nello studio scherziamo un poco sul fatto che arrivi sempre in anticipo. Anche dopo che ci siamo seduti, SA continua il suo discorso riflettendo sul fatto che le piacerebbe gestire il suo tempo in modo più rilassato, ma proprio non ci riesce “è più forte di me”. Da qui inizia a raccontare di come la gran parte della sua vita sia caratterizzata da un senso del dovere e il fatto di avere del tempo libero le mette grande ansia, tanto che deve riempirlo immediatamente, anche se poi non riesce né a godersi quello che sta facendo né ad essere efficace perché ossessionata dal pensiero di quello che non sta facendo.
La ascolto e la accompagno con puntuali rimandi empatici e rimango io stesso meravigliato di come rapidamente il flusso del suo discorso diventi più profondo e centrato su tematiche relative al nucleo del sé. Dice: “se mi fermo mi sento come se le pareti della stanza si chiudessero su di me e mi soffocassero” e accompagna la frase con
un eloquente gesto che sottolinea il senso di soffocamento. “...Si chiudessero e mi soffocassero...” dico, reiterando sia le parole che il gesto.
SA guarda quindi prima le mie mani e poi le sue, lei stessa sorpresa di un gesto di cui non si era resa conto e rimane per qualche istante in silenzio, sospesa, come esplorando qualche sensazione. Allora la invito a ripetere sia le “parole chiave”: “si chiudono e mi soffocano”, sia il gesto. Gradualmente emerge un vissuto di agitazione e di insofferenza che lei stessa non si spiega. Dice: “mi sento le gambe irrequiete, come se non potessero stare sedute”. Le chiedo se sarebbe per lei buono alzarsi in piedi. Assente e si alza. Si guarda intorno stranita, come se vedesse tutto per la prima volta. Mi alzo anche io e noto che il suo respiro si è fatto estremamente superficiale e che anche il mio tende ad affievolirsi, allora faccio io per primo un respiro profondo e poi le chiedo se potrebbe
essere una buona idea permettersi di respirare più liberamente, cosa che subito fa. Vedo che cambia l’espressione del suo volto e soprattutto dei suoi occhi, che si fanno più espressivi e carichi di emozione. Mi pare che barcolli leggermente e mi viene in mente che una maggiore vicinanza tra noi potrebbe aiutarla ad esprimere i suo vissuti e glielo domando. Mi dice che no, per il momento preferisce che rimaniamo a quella distanza.
Allora le chiedo che cosa sente che sarebbe per lei buono in quel momento. Dice che vorrebbe gridare ma “qualcosa” glielo impedisce e ripete un gesto molto simile a quello di prima. Rimanendo in piedi di fronte a lei riprendo allora ad accompagnare la sua esplorazione con rimandi empatici, fino a quando mi dice che ha l’impressione che le gambe fatichino a reggerla, che ha corso troppo nella sua vita e non ha mai potuto
appoggiarsi a qualcuno. “Sono stanca e ancora una volta non c’è nessuno a cui potermi appoggiare” dico prestando la mia voce alle sue sensazioni. “Proprio così...”. A questo punto l’intensità emotiva è molto alta e anche la connessione e la sintonizzazione tra noi.
Inizia un movimento ondulatorio con tutto il corpo, una specie di barcollare, in cui però non percepisco la perdita di controllo e il rischio di cadere a terra, ma, al contrario, una sorta di ricerca di equilibrio e una esplorazione del dolore per doversi ancora una volta reggere da sola. La incoraggio a proseguire in questa esplorazione, fino a quando sente che è per lei tollerabile. Dopo qualche minuto dice “basta così” e mi chiede se può appoggiarsi a me. Le offro allora il contatto della mia schiena, alla quale lei si appoggia con la propria, cedendo finalmente il suo peso a qualcuno di sufficientemente affidabile nella sue presenza e rispetto della distanza e permettendosi un profondo seppure quasi silenzioso pianto.
Conclusioni
Il coinvolgimento attivo del corpo e in particolare il contatto corporeo rappresenta una opportunità da valutare sempre con estrema cautela, per i suoi significati emozionali e simbolici e per le dinamiche psicofisiologiche che può attivare¹⁹.
È pur vero che costruire un setting terapeutico secondo una modalità Centrata sul Cliente riduce fortemente le dinamiche proiettive verso il terapeuta, che il cliente può vedere sostanzialmente nella sua realtà di professionista e di essere umano, ma è anche vero che la relazione cliente/terapeuta rimane di una qualità e intensità speciale, che permette al cliente di contattare emozioni, vissuti e bisogni profondi e potenti e per questo richiede di essere collocato all’interno di un contenitore relazionale non solo eticamente e deontologicamente corretto, ma anche estremamente chiaro, coerente e “pulito” da qualsiasi possibile fraintendimento o sovraccarico per il cliente.
Questo genere di cautela, che si sostanzia ad esempio in un contatto comunque sempre offerto e mai agito di propria iniziativa senza una verifica esplicita dei vissuti del cliente, è naturalmente molto più significativa nei casi di persone con esperienze di violenza fisica e in particolare di donne che abbiano subito abuso sessuale, soprattutto nel caso di terapeuti uomini ma non solo. In questi casi infatti diventa centrale e di vitale importanza il tema dei confini, interpersonali e corporei, e quello concomitante della sicurezza e del controllo nella relazione. Credo occorra grandissima attenzione ed esperienza per valutare se, come, quando e quanto poter intervenire con un contatto corporeo diretto con queste pazienti e quindi anche nei casi in cui l’abuso non sia un ricordo chiaro e certo, ma anche solamente una ipotesi nella mente del terapeuta. Può infatti accadere che un semplice
contatto di incoraggiamento o di amorevole e non ambiguo sostegno venga vissuto come estremamente positivo e al contempo sia come una minaccia di invasione sia come fonte di un piacere di cui avere enorme vergogna. Una tale carica emozionale può facilmente diventare insostenibile e portare quindi la persona fuori dalla finestra di tolleranza, fino ad esporla ad una disorganizzazione del sé, a fenomeni dissociativi e a vissuti di grande angoscia.
Al di là della opportunità di un lavoro terapeutico che preveda un contatto fisico tra terapeuta e cliente, qualsiasi forma di lavoro corporeo richiede grande cautela, sensibilità, esperienza e competenza. Anche perché estranee alle abitudini e sensibilità generalmente diffuse nella nostra cultura, il contatto con le sensazioni viscerali, l’attenzione verso gesti, posture e stati energetici del corpo, l’attivazione muscolare vissuta nella dimensione della coscienza corporea e non del fare di un corpo-oggetto possono facilmente mobilizzare vissuti profondi e potenti che possono avere funzione terapeutica, agire cioè come promotori di cambiamento costruttivo, solo se sono tali da essere contenute all’interno della coscienza. Come abbiamo visto più sopra a proposito dei processi impliciti, ci sono esperienze che coinvolgono un livello psicofisiologico che esclude il coinvolgimento della corteccia e quindi la simbolizzazione consapevole e ciononostante possono essere integrate dalla coscienza (potremmo dire dalla coscienza corporea) e agire come fattori facilitanti la tendenza attualizzante organismica. Ci sono cose che fanno bene anche se non le capiamo e anche se non sappiamo perché, il che non esclude naturalmente che possano essere comprese in un secondo momento.
Non credo comunque che questo tipo di lavoro possa essere considerato una sorta di jolly da tirare fuori quando ci si trova in una situazione di empasse con determinati clienti. Forse ci sono alcuni clienti con i quali può venire da pensare sia più naturale, più adeguato e opportuno proporlo. Penso in particolare ai clienti che presentano disturbi cosiddetti psicosomatici e quindi che esprimono il loro disagio già attraverso il canale corporeo. Vorrei fermarmi un momento su questo punto: in un interessante articolo Fornaro (2007) evidenzia come sia il termine psicosomatico che somatizzazione possano essere intesi seconda un’ampia polisemia. Ripercorrendo la storia dei termini, l’autore rivela come lo stesso Freud abbia sottolineato il peso dei fattori psichici in alcune malattie organiche. Il limite della sua concezione, e non solo in questo contesto verrebbe da dire, è stato quello di avere concepito il rapporto tra i due ambiti (quello psichico e quello organico) all’interno di una visione meccanicistica e riduzionistica di causalità lineare (ci sono emozioni rimosse che possono causare malattie organiche). Contrapposta a questa e facendo riferimento a James e Dewey, Fornaro cita una concezione funzionalista della psiche, secondo la quale essa viene considerata come “un momento interno all’organismo. L’organismo cioè è inteso come un’ entità unitaria, un tutto che precede, sia nell’ontogenesi che nella filogenesi, la differenziazione in mente e corpo; così il problema si inverte, dovendo ora semmai spiegare come psiche e corpo possano differenziarsi, e non già come possono comporsi in unità (...) la causazione della psiche sul soma. non appare estrinseca, sul modello cioè della causazione meccanica partes extra partes, bensì come interazione sistematica e circolare di momenti all’interno dell’unità e totalità dell’organismo vivente e sempre in sviluppo (evolutivo o involutivo che sia)” (idem, pag.327).
La malattia in generale può allora essere intesa come l’espressione di una disfunzione dell’organismo globale nella ricerca di attualizzazione delle sue potenzialità, nel contesto delle complesse interazioni circolari che avvengono tra i vari livelli sistemici all’interno dell’organismo e tra l’organismo e l’ambiente.
È quindi vero che una attenzione già presente sul corpo come portatore di disagio può costituire un fattore di indicazione ad un intervento psicoterapico ad orientamento corporeo, ma può accadere anche che persone che si rivolgono per un aiuto psicologico a causa di un disturbo somatico di cui non trovano alcun riscontro organico, abbiano l’aspettativa che la psicoterapia rappresenti quell’intervento che finalmente eliminerà la causa di un disturbo che percepiscono come un corpo estraneo. Può cioè facilmente non essere affatto presente nel cliente l’idea di quella totalità e interconnessione sistemica di cui sopra e quindi paradossalmente interventi da parte del terapeuta che coinvolgano il corpo possono collusivamente rappresentare la conferma dell’intervento esperto che dall’esterno toglierà il male inspiegabile. Nella mia esperienza un discorso analogo può essere fatto per i correlati somatici che accompagnano gli attacchi panico e per il loro trattamento.
Tenendo ferme tutte le accortezze di cui sopra, penso che con ogni cliente sia possibile includere la dimensione corporea nel lavoro psicoterapeutico: si tratta in realtà di prendere in considerazione una dimensione di fatto presente e non certo di introdurla ex novo. Come ho cercato di chiarire fin qui, includere la dimensione corporea non significa necessariamente che il terapeuta e/o il cliente faccia qualcosa con il corpo. L’attenzione al respiro, agli stati interni corporei sono già parte di un modo di fare psicoterapia che include l’attenzione al corpo, da qui è poi possibile osservare quali movimenti spontanei il clienti attivi, movimenti interni osservabili o intuibili oppure gesti, e porsi in una condizione di risonanza empatica con questo livello dell’essere nel mondo del cliente e rispondere sullo stesso canale, ad esempio con reiterazioni o rimandi empatici verbali, con feed back, con inviti a focalizzare l’attenzione e ad esplorare specifici aspetti della sua esperienza organismica, e dunque anche corporea. Credo che per fare questo con un certo grado di incisività e al tempo stesso in modo sia efficace che rispettoso della libertà e autonomia del processo di autoregolazione del cliente occorro una corposa esperienza personale in questo tipo di lavoro e al contempo una strutturata integrazione dell’esperienza in un consapevole e coerente modello di intervento. Insomma: bisogna averne vissute parecchie letteralmente sulla propria pelle e anche avere le idee sufficientemente chiare su cosa fare, come e con quale finalità.
Note
1
Vedi Vaccari V., Zucconi A. in Cionini L, 1998
2
Rogers C., 1951, p. 116
3
Rogers C., 1980, p.116
4
Rogers C., 1951, p.318
5
Rogers C., 1951, p.350
6
Rogers C., 1980, p.209
7
Idem, p.201. Vedi anche Anfossi M., 2002, pag. 21: “Nell’intento rogersiano il messaggio terapeutico è che la
riscoperta dell’esperienza ha valore di cambiamento e crescita esclusivamente se tale contatto con la parte viscerale ed organismica è completato dall’integrazione cognitiva: altrimenti non di sentimento si tratta, ma di anarchico e caotico accumulo di sensazioni”.
8
Vedi ad esempio Zucconi A., Dattola G. in Petrini P., Zucconi A., 2008; Verlato M.L., Anfossi M., 2006
9
Rogers C., 1965, p.21
10
Idem, pag. 21 e pag. 29-30
11
Marchino L., 2004; Moselli P., 2008; Liss J., Stupiggia M., 1994;Tonello G., 2008
12
“E’ chiaro che le nostre esperienze nella terapia e nei gruppi coinvolgono il trascendente, l’indescrivibile, lo
spirituale. Sono costretto ad ammettere che io, come altri, ho sottovalutato l’importanza di questa dimensione mistica e spirituale” Rogers C., 1980, p.112
13
Rogers C., 1980, p.113
14
Le trascrizioni dei dialoghi e le descrizioni delle interazioni sono tratte dalla registrazione video della seduta, qui
riportate con il consenso del cliente
15
Già in precedenza era capitato nelle sedute di utilizzare attivamente il corpo, anche lavorando in piedi, per cui DS sa che questo canale espressivo e comunicativo è possibile
16
“Esprimo me stesso nel movimento fisico quanto più spontaneamente mi riesca. Sotto questo profilo il mio
background non è tale da rendermi particolarmente libero. Ma se sono irrequieto mi alzo, mi sgranchisco e passeggio avanti e indietro; se volgio cambiare di posto con un altro gli chiedo se sia disposto. Uno può sedersi o sdraiarsi sul pavimento se ne sente il bisogno fisico. Tuttavia non cerco specificamente di stimolare negli altri il moto fisico, sebbene vi siano agevolatori che riescono a farlo bene e molto efficacemente. Ho imparato poco per volta a rispondere con il contatto fisico se questo mi sembra vero, spontaneo e opportuno (…) Se una persona soffre e mi vien voglia di andarle
vicino e di circondarla col braccio, lo faccio. Ripeto: non cerco consciamente di stimolare questo tipo di
comportamento. Ammiro i giovani che al riguardo sono più sciolti e più liberi.” Rogers C., 1970, pag. 62
17
Vedi a questo riguardo anche l’interessante storia della psicoterapia corporea in Downing G., 1995
18
In questo caso i dialoghi e le descrizioni provengono da trascrizioni fatte al termine della seduta
19
Vedi ad esempio il concetto di finestra di tolleranza citato più sopra
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